Siamo di fronte ad un film dotato di una narrazione crepuscolare, che parla del dolore del vivere celato a se stessi.Ciò che lega le varie parti del film, infatti, è un diffuso sentimento struggente e malinconico, proprio di Virzì, che rimanda allo Spleen di Baudelaire, ovvero all’oscuro sentimento, che abita l’Io, della caducità delle cose del mondo. E ancora più precisamente alla nostalgia di qualcosa che era pure sul punto di compiersi, ma che mai avvenne: l’incontro con una “prima cosa bella” perduta prima di raggiungerla. E’ l’amore per “…la rosa che non colsi…” di G. Gozzano, primacosa- bella che non muore perché vive in un’attesa inconscia e senza fine del soggetto. Nella sottile psicologia dei personaggi vive la poetica della provincia, che riproduce la realtà nel registro del “raccontabile”, fa della vita un aneddoto, dove il soggetto vive, nell’ombra dell’Altro e di ciò che è detto dal coro. La storia ha, infatti, a tratti, il sapore decadente del piccolo mondo, le piccole cose, dunque, di G. Gozzano. E’ in esso, delicatamente declinato il tema dell’Ideale di sé, e più precisamente dell’Ideale di bellezza. Esploreremo il significato e l’origine più profonda, nella psiche, di tale immagine. L’illusione inconscia di possedere intimamente un oggetto estetico, un oggetto bello che ferma il tempo, di farne parte o, ancor di più, esserne l’immagine, nacque quando, agli occhi dell’Io, nella nascita e nella sua crescita, svanì la madre delle origini, nel separarsi da lei. L’identificazione con il buon oggetto, che è quindi anche originariamente bellissimo, è tornare ad essere-con-la madre o, ancor di più, ad essere uno-con-lei. L’immagine idealizzata di sé nasce dunque per dar vita a ciò che il piccolo Io pensò morto o perduto, cioè la madre, non sapendo che non fu essa a morire, ma la vita che giunse a conoscerlo. L’oggetto materno, infatti, e più propriamente la Cosa, (l’oggetto mitico delle origini, con J. Lacan) per sua stessa sostanza è vivo, il piccolo Io ne smarrì l’ombra, ma esso mai si slegò nel tempo dal soggetto, e dalle sue origini continua a vivere intimamente ad esso unito. Ma poiché lo pensò perduto, fu così che l’Io idealizzò sé. L’illusione idealizzante di sé, infatti, giunse a consolare il soggetto della perdita, a giocare (il-ludo) con lui.
Illudersi di essere egli stesso l’oggetto evocativo e ideale è dunque per l’Io un modo per continuare ad amare ed essere in vita e, con il proprio amore, tener vivo l’oggetto materno nel proprio mondo interno. Ma, nel protrarsi dell’assenza di questo nel mondo reale, ovvero se non giunge un oggetto a conoscere il dolore dell’Io, e ad amarlo, l’ Ideale di sé diviene l’unico rifugio, un richiamo a svanire nell’immagine idealizzata. Mi soffermerò principalmente ad analizzare i tratti della personalità di Anna, un Femminile fragile, sottile, in cui una leggerezza di fanciulla si estende e configura il suo Sé minuto. Danza nel mondo, ma non incede, abbiamo la sensazione precisa, infatti, nel vederla esprimersi, che il suo Io viva nelle pause dell’esistenza, nella sua ombra, ma non nell’esistenza piena. La vita appare ad Anna come un insieme di eventi che si rincorrono, come agiti inevitabili, che non giungono mai alla sostanza di scelte, proprie o di altri. E’ un vivere, il suo, che non può nutrirsi di un profondo spessore soggettivo, il suo, ne è anzi quasi travolta, senza quasi poter coglierne il senso, privata di quella parete psichica che assicura distanze e permette di pensare il mondo e quindi farne esperienza, con Bion. Non potendo pensare il mondo, Anna ne è travolta. Il regista dipinge ciò nel candore esistenziale in Anna, fa di lei l’imago dell’innocenza primaria. E potremmo chiederci perché, nonostante il non felice destino, la psiche di Anna non mostri di essere attraversata dall’angoscia. E’ perché noi sappiamo, con Kierkegaard, che l’angoscia nasce sempre dall’interruzione dell’innocenza primaria, dallo strappo dell’unità con la natura, con cui lei vive una dolce continuità. Dalla rottura del narcisismo innocente, in cui Anna trova rifugio, dal mondo delle discontinuità, dell’Altro e del possibile, da tale rottura, solo da lì, per Kierkegard, nasce l’angoscia. La sua parola è un dolce canto di eventi, rispecchia e rende bello il reale, su cui il suo Io si appoggia, non potendo distanziarsi da esso e coglierne un significato tutto soggettivo. Ciò può far pensare ad assenze significative nelle esperienze affettive primarie, tali da non poter essere state interiorizzate fino a formare un ponte mentale che le permettesse di legarsi alla realtà con un pensiero complesso, e comprenderla: Anna può solo appoggiarsi ad essa. Il suo è, dunque, un equilibrio anaclitico, ovvero d’appoggio. In ciò è la fragilità e la sottigliezza di spessore in un pensiero candido. Noi sappiamo che la fragilità di spessore, nel pensiero, rimanda sempre a una sofferenza precoce nelle radici della psiche. Ed è un taglio delle origini, ma anche una ricerca di uno spazio psichico in cui porre radici, che la induce inconsciamente al suo perenne errare fra strade che non conducono e case che non accolgono. Possiamo inoltre cogliere nel movimento continuo che la vede impegnata, l’espressione esternalizzata della ricerca interiore di un oggetto perduto, con cui ricongiungersi per sentirsi viva. La mancanza o insufficienza di radici psichiche è propria di un Io che, per difettualità ambientali, non ha potuto impiantarsi e sostare saldamente nelle braccia materne, braccia che Anna crede di trovare in ogni promessa d’amore. Se il primo amore, la Madre delle origini, anziché accogliere, recide radici, l’Io non può evolvere. L’Io di Anna, infatti, per tutto lo scorrere del film, e della sua vita, non giunge ad evolvere davvero, accedendo al cambiamento come arricchimento di esperienza e sostanza psichica, ma rimane a pensarsi come una prima ed unica “cosa bella”, ovvero aderendo all’Ideale di Sé. Vorrei, ora approfondire brevemente questo concetto. L’Ideale di sé contiene sempre anche l’ombra di un Altro, il primo oggetto d’amore che l’Io conobbe e che perdette nascendo, lo cinge e si riunisce ad esso, ne nega dunque la perdita che avvenne, è sempre promessa di un ritorno di madre. Figlio del trauma, di una prima separazione, l’Ideale di sé, è sempre sbilanciamento verso l’oggetto, poiché nacque in sua vece, nacque per celarne l’assenza. Se per l’infans, che, dunque ancora non giunge alla parola e quindi al pensiero, la separazione dalla madre, nella nascita psicologica, non trovò consolazione nel ritrovare un legame d’amore con lei, simbolico ed infinito, il piccolo Io, facendo di Sé il solo oggetto del primo d’amore, tenterà così di cancellare il dolore della perdita d’oggetto, amando sé, al suo posto e ponendo del tutto la bellezza dell’oggetto al proprio interno, su di sé. Sostituirà sé all’oggetto, amerà sé al posto dell’oggetto: così nasce un più acceso Narciso, nella psiche, che rinuncia all’oggetto, e, dunque, al proprio confine con il mondo, poiché non conobbe l’abbraccio che forma appartenenze e confini. Rinunciò, così, al Significante, che sempre nasce, con J. Lacan, dal sentimento di una “mancanza ad essere” tutto, dalla percezione di un limite e di un oggetto al di là. E’ da un lutto impossibile a farsi, infatti, con C. Racamier (“Il Genio delle Origini”), e l’assenza di un confine da porsi, che il soggetto giunge a una scelta narcisistica nel suo modo di essere in esistenza. Egli, infatti, investe nel sogno di bellezza (che rappresenta il Sé unito all’oggetto, e quindi un legame ritrovato, nell’immagine, ma non nel mondo) ogni invito ad essere. Nel separarsi immaturamente, in qualche possibile e precoce trauma delle origini, e perdendo il suo oggetto materno, il piccolo Io può morire. Dovrà ricomporsi in un sogno di intatta bellezza.
Psicoterapeuta Psicoanalitico
Formazione Psicoanalitica post Lauream
“Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.”