Come in uno specchio: psicoanalisi II

Tale vertigine dell’anima ha inizio e prende forma nel punto centrale del racconto, dove il cerchio si spezza: quando, a cena, il padre annuncia la sua decisione di un nuovo viaggio che lo allontanerà dal gruppo. L’insostenibilità del dolore nella psiche dei figli è data, fra l’altro, dalla modalità del tutto incongrua di David che nelle parole sancisce il legame (“Non sapete quanto ho desiderato questo momento. Avevo una tremenda nostalgia di voi”) e nei fatti lo lacera: “Devi partire di nuovo?” chiede Karin in un sospiro. “Si, non ve ne ho parlato?”risponde leggermente David. Al silenzio brumoso che si estende subito dopo, espressione del dolore che segue la caduta di un’illusione di legame, egli risponde: “Non so perché, ma mi sento un po’ colpevole”. “Forse perché avevi promesso di fermarti, questa volta ”afferma Minus, e David: “Bé, si, ricordo che ne avevamo parlato, ma quanto a promettere…” “Avevi promesso, papà.” Dopo un attimo David aggiunge. “Mi dispiace” “Dispiace a tutti” conclude Minus che, in ogni passaggio del film, ha la funzione della coscienza del gruppo e rivela il reale negato dal mito. Karin, nel tentativo di negare il dolore, sospinge il gruppo a tornare a vivere nel mito per ritrovare un’illusione di legame che il levarsi della soggettivà sembrava mettere in pericolo: “Avanti, dovevamo stare in allegria stasera!” Segue la scena in cui David porge a tutti regali manifestamente non rispondenti al desiderio di ognuno e si allontana: la promessa perduta di legame si reifica nei regali deludenti che non assurgono all’essenza del dono. David entra in casa e piange. Nella scena si sente, per un lungo tratto solo il pianto, nel buio della stanza il personaggio scompare nell’ombra. Ciò sta ad indicare come, nel suo mondo spezzato, l’Io non incontri il dolore, non potendolo assumere non può dialogare con esso: o ne è sommerso fino a scomparire (come nella scena) o la sofferenza cade in un oblio che la nega (come nella scena successiva della famiglia gioiosa), quando l’Io entra nel mito e ride di sé. L’annuncio della separazione dal padre è fonte di angoscia profonda nei due figli, e in particolar modo in Karin perchè, possiamo dire con Resnik, il padre è pontifex, creatore di ponti: salva la psiche dalla caduta nell’abisso della separazione dal materno, fa uscire dall’isola dell’indifferenziato, crea storia e fa nascere il ricordo. Egli, inoltre, dona la verticalità dell’essere e rende percorribile il mondo. Assicura il ricongiungersi con l’oggetto ed il legame, permette il volo individuante ed il ritorno. La notizia della partenza di David si configura, quindi, come evento disperante, come rottura di un’appartenenza che attende di nascere, caduta di un sogno di legame. La separazione è vissuta, nel mondo spezzato di Karin, ma anche di Minus, come morte di un mondo affettivo che vivifica l’essere. Il dolore per l’annuncio paterno di morte dei sogni sembra non elaborabile. La pièce teatrale rappresenta, quindi, un tentativo di contenimento psichico arcaico, collocando nelle immagini, come in un sogno, il dolore senza parola. Infatti, vera recita nella recita, ha per titolo “Fantasmagoria artistica, ovvero la tomba delle illusioni”. E’ interessante notare in tal senso come il dramma sia la loro vita rappresentata: Karin è la principessa morta (così come la sua psiche è attraversata da un senso di non-vita, essendo morta al mondo degli investimenti, morta a se stessa) e chiama a sé, se-duce, il fratello- artista, che, rapito dalla vertigine dell’amore-morte, come accadrà più tardi con lei nella vita reale, sembra aver coscienza di perdere il suo Io, nella scena come nella realtà. Sussurrerà, infatti, nella rappresentazione, parlando dell’incontro amoroso con la principessa morta “rinunciare alla vita…sto diventando pazzo… l’oblio mi possiederà e solamente mi amerà la morte” e nella realtà, nella scena finale, parlando del suo contatto con la follia di Karin, esprime la consapevolezza dell’Io che cade al di fuori del senso di realtà: “tutta la realtà esplose ed io ne caddi fuori”. Ma nel dramma il loro destino infine si divide e lui sceglierà la vita. Tale scena poi si ripeterà nel reale, specchio di una realtà psichica sconvolta. Quando il padre partirà con Martin lei porterà il fratello nel suo mondo, giungendo a morire il suo rapporto con il reale nel suo Iorelitto, sul mare, dove, seducendo il fratello, Karin ancora cerca un rifugio, ultimo tentativo di essere accolta e contenuta, in cerca di un’unità psichica.

Congiungendosi a lui il suo Io ricerca il congiungimento con la vita, con il Frater interiore che sostiene la psiche. Dopo un primo tentativo di arginare il dolore trasferendolo in una non-realtà quale quella della pièce teatrale, Karin se ne sente attraversata e travolta e cerca di porlo tra le braccia di Martin, prima, e del padre, poi. Ma la sua psiche smarrita non trova in loro braccia psichiche in cui rifugiarsi. In realtà, pur porgendo la forma dell’amore, in entrambi c’è quasi un ritrarsi da un vero legame del cuore. Martin non sa stringerla a sé, il suo amore respira lontananze psichiche, non sa accogliere la sua anima, entrare nel suo mondo per salvarla. Pone, potremmo dire, difensivamente, tra sé e Karin un indurito senso di realtà, rifuggiandosi in esso, come distanza che respinge e la lascia ai voli solitari della mente. Lei gli confida inconsciamente lo sperdimento in cui la sua psiche in pericolo teme di spezzarsi, sente giungere la crisi : “siamo così indifesi a volte, come bambini che si sono sperduti in luoghi deserti, le civette gridano e ci fissano con i loro occhi gialli: senti un fruscio sommesso e un cauto mormorio intorno a te… e un annusare di umidi musi… poi le zanne dei lupi”. Nei simboli la civetta è uccello notturno, lunare che fugge la luce del sole. Per gli Atzechi la civetta è, insieme al ragno, il simbolo del dio degli inferi, in diversi codici è associata alle forze ctonie, è metamorfosi della notte, della pioggia, delle tempeste. Per tali ragioni è spesso associata alla morte e alle forze dell’inconsciolunare. Il lupo, nella tradizione nordica rappresenta la morte cosmica, è divoratore di astri. Dunque il fragile Io di Karin percepisce oscuramente una minaccia di morte psichica che proviene dall’interno, dall’erompere del mondo inconscio e pulsionale. L’impossibilità di assumere l’angoscia depressiva, in assenza di un legame che sorregge, fa precipitare l’Io in un’angoscia persecutoria in cui, non potendo integrare il lutto per un sogno d’oggetto, lo capovolge in lutto dell’Io, solo e circondato da ombre notturne divoranti. Nel colloquio notturno con Martin la civetta è immagine interna, narrabile, nel tentativo di trovare all’esterno un involucro psichico amoroso che contenga e la com-prenda, o la prenda-con-sé. La crisi è ancora contenuta nella psiche: Karin cerca un legame amoroso con il reale che la cinga e la sorregga. Ma, allontanata dalle distanze psichiche di Martin, l’immagine della civetta cessa di essere oggetto psichico, racconto condivisibile e diviene realtà evocativa nel mondo notturno di Karin. Mentre la coscienza è assopita (Martin continua a dormire) la psiche di Karin segue il richiamo della civetta. Cerca quindi il padre che l’accoglie tra le braccia fisiche ma non psichiche, la pone nel suo letto “come quando” era “piccola” ma, la lascia ancora una volta. In assenza dell’Altro Karin non può dormire, in assenza dell’Altro che rappresenta la pelle psichica che contiene il suo Io lacerato e che quindi veglia sul suo sonno. Lasciata ancora una volta, fra le carte del padre scopre di essere oggetto di un’assenza di sguardo, reificata da uno sguardo siderante del costruttore di romanzi che allontana e recide il legame. La stanza in cui Karin ascolta mondi irreali rimanda alle rêveries della “stanza segreta”. Il passaggio in tale cavità misteriosa è sempre presente nei rituali di iniziazione. E’ luogo al riparo da ogni sguardo. L’iniziato a volte riceveva, nel dimorare notturno nella stanza segreta, il divino che si rivela. Apuleio, nell’Asino d’oro, narra di stanze segrete nei riti di iniziazione al mistero di Osiride. E’ dunque nella sacralità di questo luogo che Karin attende il divino. Altro simbolo di ricongiunzione di mondi divisi è la scala, che porta alla stanza. La scala rimanda, infatti, simbolicamente, alla poetica dell’ascensionalità dell’essere, ripristina il contatto originario tra cielo e terra, in seguito spezzato. La stanza della follia rivelata, nel film, è presentata vuota e disabitata, simbolo dell’abbandono psichico, stanza danneggiata come il mondo interno di Karin, desertificato e ripopolato con i suoi oggetti interni che, nella loro luminosità si contrappongono al mondo reale in cui vive solo l’ombra del legame. L’idea delirante di poter entrare nella carta da parati indica il desiderio di rigenerazione psichica: entrare nella madre-carta, madremuro per rinascere in un mondo armonico, il delirio è quindi sogno di integrazione psichica “mi trovo in un ambiente enorme, tutto illuminato e tranquillo, diverse persone vanno avanti e indietro e quando mi rivolgono la parola li capisco. Tutto è splendido ed io sono serena, tutto torna, le parole parlano, i silenzi tacciono…”La carta da parati è come pelle, fragile come seconda pelle psichica. Se psicosi per Resnik è metempsicosi, ossia viaggio dell’anima in cerca di un altro corpo-madre in cui poter rinascere, Karin con questo sogno entra nell’anima del muro. Karin, dunque, allucina un mondo luminoso. Etimologicamente la parola allucinazione proviene, appunto, da lux-cis ed ha il significato dell’irradiare dall’interno una luce sul mondo. La a iniziale rappresenta al tempo stesso un’áprivativo, che indica un’assenza di luce. Ciò sta a indicare che la “luce irradiata sul mondo” non è luce della coscienza, ma luce notturna. L’allucinazione, quindi, è buio che si capovolge in luce, negazione della coscienza, è sole opposto al giorno, sole notturno. Attraverso l’attesa di Dio Karin offre immagini all’attesa di tutti di una presenza d’amore che unifichi la psiche lacerata di ognuno, che curi le ferite interiori e permetta di legarsi al mondo attraverso un sogno di appartenenza divenuto realtà. Segue la visione solitaria del ragno che si pone al posto del divino. Nel mondo dei simboli l’immagine del ragno è espressione lunare, legato al tessere e al filare, costruisce il tessuto del mondo, è signore del destino. Karin quindi incontra, come in uno specchio l’immagine di un destino già intessuto, già dato, dove la sua stessa follia è cedere al destino. Potrà scegliere di ricoverare, ciò portare al riparo le sue parti psichiche pìù fragili, solo dopo la caduta dell’illusione che la tratteneva nel mondo della luce (allucinazione) Il ragno, infatti, che lei vede e da cui si ritrae nel terrore, rappresenta forse la realtà, quale raggio nero, che irrompe nell’allucinazione e la infrange. Il divino atteso non vive nell’altrove folle, può manifestarsi solo nel reale. Non potendo più sostenere il conflitto ontologico che lacera la sua psiche, Karin sceglie la morte in vita, lasciandosi andare alla follia senza cura, sia pur ritraendosi in ospedale. Ma la sua decisione di ricovero può esser letto in chiave opposta, come rinascita. La parola “ricoverare”, infatti, proviene etimologicamente da “recuperare”, e quindi “tornare ad avere”, che è sempre un tornare ad essere. Se solo nel legame del cuore vive il dio dell’amore e non negli spazi segreti della mente, nella realtà degli scambi si svolge la storia, che non evolve, di una famiglia che non ha mai raggiunto il suo sogno amoroso, famiglia che non giunge a formarsi. I personaggi sono, così, soggetti senza soggettività, non inscritti nel mondo, costretti in un nodo nostalgico a guardare la vita (come finestre sul mare), ma non giungono ad essere, non c’è nascita psicologica, ma attesa. L’immagine della finestra sul mare, così presente nel film, è apertura psichica dove l’Io non si sporge, recettività negata, metafora della perdita di allocentricità nello stile psicotico: non c’è apertura all’Altro, nell’angoscia di svuotamento della sostanza psichica. E’ davvero Bergman poeta della nostalgia: nei personaggi canta il sogno di un nido psichico che non si è costituito, perchè nella famiglia manca la strutturazione che permette il legame: il piano generazionale non è raggiunto. I soggetti sono quattro voci solitarie di un unico mondo che non raggiunge il rispecchiamento ed il riconoscimento, perchè non può strutturarsi al suo interno nelle dinamiche della cura, che precisano il discorso della filiazione, tracciano differenze tra chi prende tra le braccia e chi è cullato, tra chi teme e chi consola. Può solo scindersi in quattro frammenti (i personaggi) che si rincorrono in un’impossibile integrazione. Il dio dell’amore non abita il loro legame ma, evocato nel sogno diurno di Karin, entra nel tutto e diviene speranza di filiazione, come appare nell’ultima scena dove Minus incontra il padre e, anche nel permanere del muro d’ombra può rinvenire un sogno di legame, sussurrando a se stesso: “Papà ha parlato con me”. E forse questo è l’inizio.

 

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  1. avatar Dott.ssa Maria Rita Ferrisays:

    Psicoterapeuta Psicoanalitico
    Formazione Psicoanalitica post Lauream
    “Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.”