Pensare il sisma II

Una linea sottile nella psiche, tuttavia, separa l’Io dal perdere il sentimento di essere vivo e lo fa rispondere ad un sogno di nascere ancora. L’antica promessa inconscia fatta a se stessi di vivere eternamente, infatti, torna ad essere l’unico segno che ha permesso al nostro Io di tornare a pensare, e protegge il desiderio di essere vivi. Nel tempo sono le fantasie inconsce, ritrovate nel desiderio di vita, che permettono di pensare parte dell’esperienza del crollo, per essere, così, psichicamente salvi. Quando crollò il paesaggio, infatti, venne meno in noi ciò che lo rispecchiava: il luogo psichico, inconscio, in cui riporre i buoni oggetti interni, in cui pensarli, si distrusse così ogni legame, ogni accordo vivente, ignorando la preghiera di chi ci amò. Il sisma ricorda che la follia giunge sempre dall’esterno, come disimpasto pulsionale e trionfo di ogni istinto di morte. È chiusura ad ogni fantasma di senso, riproduzione di una fine preannunciata internamente nei meriggi di altri tempi. Come trovare chi ruppe il ritmo regolare dei giorni che univa l’alba alle stelle e respirava con noi? Quello che è sempre stato in noi paesaggio di desiderio si cancellò nei luoghi del solo bisogno, dove pulsioni indistinte negano al simbolo la sua antica esistenza. Nella fragilità di pareti disgiunte, infatti, l’Io, dimora dei simboli, si rispecchia e può cadere, al giungere del sisma. Poiché il sisma slegò l’abbraccio interno con il paesaggio fino a non sentirci più parte di esso, la perdita di senso che ne derivò fu perdita senza fine. Chi riunirà di nuovo le nostre rappresentazioni disperse? Perdita di senso che si avvolse alla nostra stessa vita fino, a volte, a non essere più da noi internamente amata. Oggetto di un processo di designificazione, la vita stessa perse il suo senso più profondo. Chi, dunque, riunirà le nostre rappresentazioni disperse? Il sisma ci ricondusse d’un tratto dove ha origine il mondo, senza più cieli che proteggano il senso. E se ogni casa, con G. Bachelard, è un sogno di capanna, dove si perse la nostra più antica madre che ci avvolgeva in ogni angolo di vita? E se anche il grano da allora, da quell’aprile, fiorisce sotto il cielo di un altro secolo, con i fiumi di G. Bachelard, come ritrovare il nostro Sé smarrito? Quando il sisma interruppe il nostro senso di esistere, un pensiero bianco come neve fu il nostro rifugio. Inconsciamente rinunciammo così al sentire.

Fu quando la nostra terra rinunciò al suo esistere, infatti, che svanimmo con lei, e ci fu chi tornò a vivere nei luoghi inconsci in cui nascono i sogni. E se è vero, come ricorda sempre G. Bachelard, che gli uccelli dei sogni non muoiono, fu così che il nostro vivere sensibile ebbe riparo. E’ anche vero che un pensiero che non tollera il crollo è troppo duro per non cadere. Il trauma esterno del sisma, infatti, risveglia e rivela in noi antiche ferite interiori. In ognuno di noi, per così dire, vive un sentimento di infanzia senza fine, di infanzia immobile, dove dorme, a volte, un trauma affettivo muto, conosciuto come sentimento dolente, ma non ancora pensato, come un “sogno non sognato”, diremmo con T. H. Ogden. Ne resta, a ricordo, solo una sua rappresentazione immobile dove tace l’emozione. Ne ricordiamo il fatto, ma non l’emozione o il dolore che esso ci diede. Trauma affettivo taciuto a se stessi. Realtà troppo dura per essere pensata da una sola mente, quando l’Altro e i suoi doni si fecero assenza. Se non può essere pensato, è un dolore che giace nel corpo, forse, dove trova rifugio, negli organi assopiti cui non dà più tregua. Diviene dunque dolore d’organo,ritorno al somatico. Ogni somatizzazione, infatti, è memoria carnale di un dolore psichico un giorno vissuto, ma non ancora narrato. Ciò che nel passato fu trauma bianco, cioè impensabile perché inumano per una mente sensibile, unendosi e confondendosi al sisma, diviene oggi sentimento di allarme, che segue l’ombra dell’Io e non dà pace. “Paura di un crollo”psichico che fu (con D.D. Winnicott) e che, non riconosciuto allora, diviene nelle immagini inconsce, ora, imminente aprirsi della terra. Attesa di una fine il cui sapore è già conosciuto. Il sisma è ferita carnale, e riproduce così quel trauma affettivo e personale, lo assorbe e lo proietta nell’universo, lo rende ora, davvero irrappresentabile al soggetto, perché separato dalle sue origini e travolto da un mare sconvolto. Il dolore diviene cosa. Il doppio sisma, quello personale e quello esterno, è notte che non si può sublimare e cioè elaborare, far passare dalla realtà sensibile a quella rappresentabile, senza un’Altro che lo pensi e lo senta con noi. Quando dei due, l’antico trauma affettivo diverrà narrabile, attraverso l’esperienza che cura, anche il sentimento del sisma si scioglierà in pianto.Troverà un luogo psichico dove generare immagini e nutrire il giorno. Con il tempo nuove trame mentali più leggere nasceranno in una comunità che sogna. Dalla polvere che un giorno fu strada un nuovo pensiero raggiungerà civiltà perdute dove hanno origine i pensieri. Nella capacità di raccogliere utopie per farne un tessuto mentale si giunge a dar luogo all’esperienza di essere nuovamente vivi. Ed è così che torneremo a darci del tu. Quale il significato inconscio della città, ovvero del paesaggio da noi perduto? I luoghi amati hanno l’essenza dei veri oggetti trasformativi, di cui parla, altrove, C. Bollas, poiché riuniscono le frammentazioni del Sé che li percorre. Il paesaggio è, dunque, promessa di trasformazione del Sé, ma anche ricordo inconscio dei primi rapporti con la terra in cui il soggetto e il mondo, come il Sé e il primo oggetto d’amore, “sentono di accrescersi e darsi forma a vicenda”, con C. Bollas. I luoghi amati rendono, infatti, immortale la mente che li pensa. Favoriscono un processo d’integrazione interna tra emozioni e rappresentazioni, ridando vita a quella parte di sé, di noi, che vive nel viaggio. Il paesaggio, per il viaggiatore che lo abita, è come disegnato dal destino.Ogni aspetto della città è, inoltre, eco del nostro mondo interiore che trova in essa respiro per vivere. La sua memoria, dunque, è ricordo di un nostro vivere antico, quando la mente non rappresentava ancora il mondo, ma lo conosceva profondamente nei sensi, è atmosfera interna di essere-con-la-madre, fra cortili e corolle… Ogni sguardo sul villaggio umano è uno sguardo su sé, è una forma di déjà vu, dove le immagini non muoiono, ma si legano in nuovi giochi con gli oggetti della vita, dove si raccoglie il disegno antico scritto nell’ontogenesi. La realtà psichica di ogni singola città è nei suoni, nella luce che in lei abita e nei gusci che raccolgono il suo Sé. L’estetica del villaggio umano è, dunque, un sogno architettonico di chi visse per donarci luoghi da amare e dove il nostro Sé può riconoscersi e sostare. E’ trasmissione grafica di un senso, di un modo di essere vivi in altri secoli, che dialoga con il nostro essere più profondo. Vivere con il paesaggio è un’esperienza onirica, poiché esso è il teatro in cui il Sé incontra inconsciamente l’antica madre, dona alle strutture dell’Io un senso profondo, lo riannoda all’esistere ancestrale. Ma è l’essere profondamente con il paesaggio, è l’incontro con l’Altro, che offre continuità all’esistere, così come seguire con lo sguardo, in rêveries solitarie, i passaggi di luce sulle mura. Sognare il paesaggio arricchisce di senso i giorni e ci protegge dall’ignoto e dalle forze che dissolvono il legame tra i pensieri inconsci. Noi sappiamo bene che la costanza di ogni legame con il mondo dà continuità al nostro sentire. Essendo se stesso, dunque, il paesaggio ci riunisce intimamente. L’apertura al discorso inconscio dei luoghi più cari rivela nel nostro mondo interno nicchie di esistenza impensate, e trasforma ogni strada in itinerari di senso. Ed ogni strada è l’inscrizione inconscia del tempo nello spazio, perché disegna un percorso, ci congiunge ad una meta. Tracciare una strada, infatti, è davvero inserire il tempo nello spazio, tracciare un ponte percorribile su una distanza tra due punti prima indistinti, include una meta e dunque il desiderio di congiungerci ad essa. La strada nasce dal sentimento del tempo, si genera da un desiderio, ed è dunque l’incisione, nella terra, di una nostra profonda emozione. E’ la strada, infatti, che ci rende possibile pensare il cielo. Ed è per questo che possiamo dire con C. Castaneda che “le strade hanno un cuore.” Nelle piazze, colme di cielo, anche la luce ci è cara. Ogni fontana, poi, è rêverie di acque nascenti, ogni incontro con l’Altro un primo, antico incontro. E i parchi, i giardini di città, sono i luoghi che nascono dalla nostalgia degli dei e attendono il loro ritorno, nei sogni di Duccio Demetrio. La città ha, nell’inconscio, l’essenza di un vero oggetto evocativo, ricordo di “una ricorrente esperienza di essere”, pensando con C. Bollas, nella quiete psichica di essere con l’Altro. Il paesaggio, inoltre, suggerisce il pensiero, favorisce con i suoi disegni una tessitura di legami nella mente che integra sensazioni ed emozioni in un ramage che trattiene il senso del vivere. Evoca nel mondo interiore l’incontro con parti impensate, aree di sogno si intrecciano in mappe di sentieri che, divenuti pensabili, possono incontrare il mondo. La città antica è il luogo dei sogni della sosta e del riparo. Una città che riposa, infatti, addolcisce il dolore. La sua estetica notturna, altresì, sollecita in noi il desiderio di viaggi più profondi, di incontri inconsci con aree inesplorate e sotterranee, celate al giorno. Una città sotterranea, ogni notte, ci guida al centro della terra. Ci sono parole, infatti, che prendono vita solo nella notte e tornano ad attenderci in quegli antichi luoghi. Gli stati d’animo che dimorano nel nostro Sé notturno si arricchiscono in una città che da sempre nasce nelle stelle. Ed è solo per chi è intimo della notte, come R. Frost, che si rinviene, con stupore, l’oggetto amato la cui ombra vive sempre nell’archetipo della notte. Possiamo infine aggiungere che il villaggio umano è una pausa nel mondo naturale, luogo quindi di incontro tra conscio e inconscio, è il simbolo di un legame profondo con la terra, dell’umano con il naturale. Il sisma, dunque, è follia cosmica di un inconscio che ha perduto l’Io che lo conteneva. E se la natura è madre, è anche inconscio, generoso mondo di pulsioni che l’Io coltiva e discerne articolandole e trasformandole in viali di pensiero. L’uomo è quindi, in questo dialogo immaginale con la natura, rappresentante dell’Io cosciente che raccoglie, dà forma e senso agli oggetti inconsci naturali, trasformandoli in architettura di sogno. E’ in questo senso che il paesaggio urbano è l’incontro ed il legame profondo fra Conscio e Inconscio, tra l’Io e la Madre Archetipo che rende salda la vita rendendo sensibile la materia ( lat. Mater- madre). Ritroviamo nelle linee costruttive di ogni città vivente il primo paesaggio che scorgemmo alle origini sul volto della madre e che ci donò la terra. Ed è per tutto questo che in noi sappiamo bene che una città che rinasce è una madre che torna.

 

Clicca qui per la prima parte!

Nome spettacolo
  1. avatar Dott.ssa Maria Rita Ferrisays:

    Psicoterapeuta Psicoanalitico
    Formazione Psicoanalitica post Lauream
    “Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.”