Disturbo borderline: pensare gli Stati-limite

Poiché il dolore del soggetto-limite non trova sollievo in un rimemorare mai raggiunto, egli vive ai bordi di un lutto noto ma mai pensato. Si può affermare, quindi, che il soggettolimite non conosca la perdita, ma il suo annuncio perenne. Vive così in una perdita immobile, perdita senza oggetto. Non conosce la morte come sostanza che diviene effimera ma, essendo egli stesso effimero, aspira ad una sostanzialità che sfugge, aspira al vero, inconfigurabile. Poiché il vero, infatti, richiede sempre una risonanza affettiva, e quindi che l’oggetto sia anche interno, il soggetto-limite, che non ha costanza di oggetto, conosce il reale, ma non il vero. Può sperimentare il reale, ma non può mai confermare ciò che percepisce. Manca, infatti, nel suo pensiero un meta-livello significante. L’unica dialettica risolvibile nella relazione oggettuale, per un pensiero così costretto, non è mai “vero-non vero” ma “vicinodistante”, anche se la più profonda, irrinunciabile aspirazione è quella ad essere vero lui stesso. Il vero appartiene al tridimensionale e la terza dimensione è quella interna, mai data dall’esterno, è l’introiezione di uno sguardo. Il vero, dunque, si rivela nella rêverie, nella “penombra di associazioni”. Il vero richiede che nel soggetto si configuri una coerenza intrinseca, che renda l’oggetto, per così dire, “compatto” e Altro da sé. Ma, essendo l’oggetto distinto, ma anche un riflesso delle possibilità e modalità del conoscere del soggetto, poiché quest’ultimo non trova in sé una compattezza che solo il primo abbraccio realizza, egli non incontrerà che oggetti percepiti come internamente incompleti, insaturi, o discontinui. Il vero include e si fonda su un’ammissione di alterità, sull’accettare una rinuncia. Solo così potrà esservi con-cordanza (nel senso etimologico di “unire i cuori”), coerenza e coesione, tregua in una relazione non più conflittuale, tra percezione di soggettività e oggettività e, al loro interno, tra fantasia e realtà. Nel soggettolimite, al contrario, vi è sovrapposizione. Il vero si rivela nella pausa dell’essere pulsionale. Il vero si rivela, o meglio si riconosce, lo si ritrova. Un oggetto vero, a sua volta, rende vero il soggetto, rende vera l’esperienza. Ma poiché alle origini l’oggetto buono fu deludente, perse la sua attendibilità e veridicità. Si smarrì, a tratti, dal mondo esterno e cessò, a tratti, nel mondo interno. Da allora iniziò, per il soggetto, la ricerca non dell’oggetto, ma della sua luce. Egli ne divenne l’ombra. D’altra parte non può rinunciare all’oggetto cattivo, poiché con la sua iperpresenza lo salva dal vuoto, da esso riceve un non-legame che, in quanto tale, è inesauribile, stabile nel rifiuto di ogni dono e coerente nel colpire. L’oggetto cattivo è l’unico che il soggetto non potrà distruggere, legittima ogni acting, e lo riconduce ad un sogno di soggettualità ( fugacemente rinvenuta e gridata al cielo in ogni collisione) in un altrove non ancora abitato, dove un simbolo l’accolga, in una possibile speranza di essere vero. La discontinuità originaria dell’oggetto buono, inoltre, divenne lacerazione di ogni inizio di legame con il mondo, discontinuità e dis-accordo con esso, caduta di ogni possibile incontro tra mondo interno e mondo esterno. Cancellò il mondo interno assottigliando ogni possibilità di accogliere l’oggetto ed internalizzare. Restò così, del soggetto, solo un possibile rispecchiamento adattivo e compiacente, di superficie, “imitazione di introiezioni”, come suggerisce E. Gaddini., risposta somatica che non si fa psichica, che preserva il cuore da ogni strappo negando ciò che crea il legame: l’oggettualità vivente dell’altro. Ma così la soggettualità è anch’essa perduta e si scioglie in un’eco senza memoria di un oggetto distale. Non potendo infatti internalizzare la voce del mondo, la soggettualità non giunge ad esistere continuativamente, perde, senza averlo pronunciato, il senso stesso di esistere e si fa riflesso di un oggetto mantenuto distale, non interamente pensabile, che non ha risposte e rimane al di là di un confine che nessuno varcò. Il mondo interno, perduto il nesso con i suoi oggetti, sente di non poterli più rinvenire e si estende così, come un grande lago languido dove un cielo oggettuale, divenuto indifferente ed inarrivabile, si rispecchia senza più cuore. La dipendenza dall’oggetto è essa stessa il destino di un’internalizzazione impossibile. E’ espressione di un desiderio di introiezione, di un necessitante fermarsi sul registro del somatico di ogni slancio pulsionale che insegue solo l’oggetto che fugge. Lo psichismo tace per non aprirsi al dolore, cede il passo all’acting che sostiene da ogni caduta nel vuoto d’oggetto. E’ l’acting, infatti, che proietta la psiche in una sorta di vertigine spazializzata, espansione illusoria del soggetto attraverso un movimento reattivo, cercando i propri confini nell’urto cogente con l’oggetto. Si estende così su un’orizzontalità enigmatica e pulsante il dramma della caduta di ogni possibile significazione. L’acting, il movimento senza progetto nel mondo esterno, si configura, dunque, come una caduta orizzontale, negazione di ogni movimento interno che non sia irruzione pulsionale. Il soggetto si muove all’esterno perché non può com-muoversi all’interno. Il suo movimento è espressione dell’onnipotenza del Sé, la quale nega la perdita oggettuale, che avvenne quando l’oggetto divenne mortale. La perdita di onnipotenza dell’oggetto, l’esperienza troppo precoce della sua caducità ha determinato l’onnipotenza del Sé del soggetto come solo rifugio. Tale onnipotenza, infatti, si configura come estremo tentativo di salvare l’illusione originaria, il legame con l’oggetto che non muore, attraverso una incorporazione infinita e la rinuncia ad ogni vero legame. Ogni acting è sempre il ricordo di una prima esperienza estetica (C. Bollas) con l’oggetto d’amore che lo cinse, ogni volta, in un abbraccio feroce. Ogni oggetto diviene così traumatico perché deludente nel suo mandato di ridonare onnipotenza al primo legame, ovvero riannodarlo. Nessun ambiente è più “madre ambiente”. Non c’è riposo per un soggetto che ha perduto il primo humus. La vulnerabilità di ogni oggetto successivo, d’altra parte, la sua stessa umanità si configura per il soggetto limite come un tradimento annunciato, e mai come valore da curare, sorgente di ogni gratitudine. Poiché non potè salvare il suo primo oggetto, egli sa che non ci sarà mai più un oggetto che potrà salvare lui. Non incontrando un oggetto in cui cullarsi e sostare, non può che attenderlo infinitamente in un’infanzia perenne, e non potrà voltare le spalle per trovare sé, ma solo sopravvivere nell’attesa immobile che qualcosa di vivo lo raggiunga. Rimane com-preso nel trauma, unico evento che unisce la sua storia, trauma che in verità non torna a ripetersi come coazione, per il solo fatto che mai cessò. Interminabile e antico, il tempo traumatico è l’unico tempo possibile, l’unico che il soggetto conosca, antico ma mai passato, si estende sull’orizzonte interno, dove la lotta con la morte non conosce sosta. L’oggetto buono fu conosciuto e perduto, ma mai smarrito nella mente, vive al di là del primo limite che sorse in luogo dell’abbraccio. Forse possibile, ma mai raggiunto, non sortisce rinuncia nel soggetto, ma esiste in quanto se-duce e svanisce. La relazione affettiva è, tra queste linee, amore che non si fa leggenda, ma storia di uno strappo perenne, slancio pulsionale a tornare in vita, nascita capovolta: movimento autogenerativo attraverso l’Altro, negandolo come soggettualità. Il soggetto limite non può pensare l’oggetto, perché non può rinunciare ad esso. Se il paesaggio interno è irrelato, infatti, l’Altro è il ponte che congiunge alla vita. Egli vede l’oggetto, ma non può raggiungerlo, perché non può percepirlo costantemente dentro di sé. Sogna, dunque, il legame senza poterlo pronunciare. E poiché il suo consistere non è tale da poter lasciare orme nel cammino dell’Altro, ogni passo non è che un primo passo, senza memoria alcuna, né meta. Ma se l’Oggetto non elaborò l’insignificabile della sua prima vita, gli elementi grezzi non sono stati dotati della flessibilità adatta a formare una tessitura su cui l’Io possa incidere i sogni. Di qui la condizione esistenziale che esclude il “diritto di sognare” (G. Bachelard), ma lo dota di una vitalità tutta intesa a sciogliere, a colpi di ingegno e di pulsione, il grande enigma d’essere pur vivi. Sognando un’ introiezione impossibile che colleghi l’Io ai laghi sorgenti che non muoiono, che dia accesso a ciò che nasce di nuovo e consegni alla memoria il Primo Incontro, il soggetto non può che incorporare insaziabilmente frange di oggetto senza tessitura. L’oggetto che non muore è quello inanimato, fermo nel controllo onnipotente di un Io che non può creare, né amare, ma che difende il suo diritto a sostare. La sosta, ma non il riposo(A. Correale), è ciò che resta di un’introiezione mancata e di una ricerca, resa vana, di oggetti-culla, che vegliano e curano il primo sonno e il respiro. L’incorporazione smisurata lega così il soggetto non all’oggetto, ma all’imago che non muore e che rende satura l’atmosfera psichica non più dedita ai sogni. Ciò rende impossibile il lavoro del lutto perché è l’imago a possedere il soggetto, attraverso un’incorporazione che situa l’oggetto incistato nell’orma interna della sua stessa assenza ( N. Abraham, M. Torok). E’ questo processo che, non giungendo ad introiettare, rende l’oggetto irrelato con l’Io, che non ne fa esperienza, né può patirne il dolore, laddove l’incorporazione restituisce solo la forma di un legame che non assurge a sostanza e ne nega l’essenza. L’incorporazione, dunque, nega l’assenza dell’oggetto e del desiderio nel momento stesso che lo evidenzia come imago e si pone come silhouette di un desiderio capovolto, desiderio a venire ma già perduto. Ed è per questo che, per il soggetto-limite, la vita è inizio perenne, alba che non matura in giorno.  Il soggetto limite vive nel verosimile, a un passo dal vero. Nell’acting si getta nel reale per divenire reale. Agire per essere. Si avvolge di reale senza potervi mai alloggiare, ne resta al di là in un non-mondo che attende di sorgere ma che, non tollerando la soglia, non può mai varcarla ma solo inseguire o, al più, rimandare. La sua è, dunque, una pulsione in cerca di un significato che la renda pensabile. Nel deserto di nessi, il trauma si configura come unica forma di vita. Il soggetto-limite è attratto dal trauma come la falena alla luce. Non può che inseguirlo e crearlo per negare che in esso trovò un’assenza perenne. O meglio per ritrovare in esso l’unico dono del suo Primo Oggetto. In realtà si allontana da ciò che è vivo perché ne teme la fascinazione, ed il pensiero non sorge da “penombre associative” ma dal tentativo di assoggettare il reale all’urgenza. Non giunge a far proprie le esperienze emotive, quindi non può usarle per alcun lavoro psicologico conscio o inconscio. Non potendo elaborarle, tutto risulta immutabile, ed è per questa sua impossibilità di sognare il suo esistere (T. Ogden), che la morte è parte della sua stessa esistenza. La sua vita si raccoglie, quindi, in un’unica stagione destinata ad inseguire un sentire che mai le appartenne. Non c’è inverno, infatti, che accenda in lui un fuoco interno, poiché è a lui che il Primo Oggetto, per incuria, ogni volta non si donò. Ogni inverno riaccende quindi il sogno di un fuoco da cui l’Altro, incautamente, si allontanò. Vissuto in prossimità dell’oggetto, ma mai con esso, non potè che duplicarne il profilo e l’essenza. Figlio di un’onda che sommerge e svanisce, non divenne mai umano. Sostò sulla riva di due mondi senza riposo (nel riposo significante di A. Correale), ma, a tratti, divenne onda lui stesso. Figlio di oceano e terra non divenne del tutto umano, perché la perdita in lui non si fece mai rinuncia, ma onda di assenze che gli riempie il sentire. L’unico modo per sentirsi esistere rimane dunque togliere vita alla vita, duplicare l’assenza, disinvestire il mondo e lasciarlo anch’esso ai bordi del proprio destino. Ma mai troppo a lungo. L’urgenza del non cadere lo getta tra le braccia di una grandiosità che lo salva. Capovolge così il destino in una caduta verso l’Alto. L’unico movimento possibile è, infatti, la verticalità dell’umore. Internamente fermo, sulla riva immobile, può all’esterno gettarsi senza freni nello spazio, producendo un’orizzontalità della caduta. Depressione negata e impossibile, dispersa in un movimento immobile. Poiché non commosse l’Oggetto, vide il suo primo legame sciogliersi, così precocemente da non poterlo mai pensare. E in seguito, possiamo dire, che non conoscerà mai davvero un nuovo oggetto, perché in lui è sempre l’antico che torna, ad un tempo consueto e inconoscibile, la cui presenza è promessa di legame, ma la cui danza è in un rinnovato abbandono. Egli, infatti, non può sentirlo vivente senza perderlo in quello stesso istante. Di qui due effetti: – da un lato, non potendo tenere a sé l’oggetto (che respira e vive in un interminabile altrove), attraverso un capovolgimento onirico sente che è l’oggetto stesso a catturarlo rifiutandosi, a lui che non può che sfuggire radicalizzando la caduta (falling in love o falling in hanger) – dall’altro non potrà dunque mai concedere vita propria all’oggetto, rinunciando ad un possesso non raggiunto, di qui l’impossibilità di essere vero egli stesso. Ovvero, poiché non c’è posto nel suo mondo per l’Altro – vivente, sa di non aver posto nel mondo, e la realtà, o iperrealtà (cioè senza pause) diviene troppo satura per accoglierlo. Si può parlare di iperrealtà perché, per il soggetto-limite, scegliere il controllo del reale è negare ad esso pause di pensabilità ed il diritto di rimanere in parte ignoto. Il reale, così, coincide necessariamente con il visibile, nella rinuncia a rivelarsi. Ma di fronte allo svanire alla sua vista dell’oggetto, alla percezione della sua alterità abissale come può legarsi ad esso? La soggettività vivente nell’Altro ricorda, anzi presentifica la soggettività divenuta d’improvviso estranea del primo Oggetto, l’allontanarsi istantaneo del suo sguardo per divenire neve: il soggetto, dunque, per amare dovrà da allora in poi legare l’Altro, chiuderne l’orizzonte, fermarne il passo o il respiro, lo imprigiona perché non svanisca ancora, ma non potrà offrigli dimora. Controlla dunque l’oggetto, per poterlo amare. Controlla con la cura con cui si costruisce un nido, dove però l’oggetto non potrà mai alloggiare, né lui stesso. Vive preparando nidi mai pronti. Poiché chi è stato smentito nella sua prima attesa di legame vive sulle rive di un’infanzia immobile e irrinunciabile, la sua intera vita si sostanzia in un’attesa perenne della prossima perdita.

Nome spettacolo
  1. avatar Dott.ssa Maria Rita Ferrisays:

    Psicoterapeuta Psicoanalitico
    Formazione Psicoanalitica post Lauream
    “Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.”