La parola amore esiste: psicoanalisi I

Il film inizia con una scena in cui Angela è ripresa nel suo incerto cammino, espressione dell’angoscia degli spazi e dell’attraversamento. La strada è metafora della sua terra psichica, dove solo i rituali del cammino rendono possibile l’incedere, così nel disegno di strisce pedonali che lei non può percorrere liberamente è tracciato l’abisso in cui il suo Io può scivolare e perdersi.

La strada è proiezione di territori psichici non saldi, in cui l’Io traccia mappe di certezza attraverso la ritualizzazione del cammino interno. Anche il suo pensare, infatti, segue tracciati particolari che si estendono sull’incertezza dell’essere, in cui la magia di alcune parole aprono abissi superabili solo col tacere: “ … ci sono parole di cui ho paura, che non ho il diritto di usare, come la parola ‘sicuramente’… ”, dirà allo psicoterapeuta, che le chiede quindi: “ ‘Come fa quando deve esprimere quel concetto?’ ‘ Cerco di non farmelo venire in mente’ “ L’abisso psichico, come vuoto interiore, da lei pronunciato come mancanza sul piano dell’agire (“… Ho trent’anni e non faccio niente”, dice allo psicoterapeuta), è in realtà sentimento pervasivo, dell’essere niente, proiettato nel mondo: la scelta degli scenari disadorni e scarni, così come il vuoto del dialogo minimale con le amiche e l’indifferenza che abita gli incontri, con la madre e lo psicoterapeuta, parlano silenziosamente di un’assenza di essere, che si estende come ombra malinconica di un mondo disaffettivizzato, di non-nascita. Eloquente, in questo senso, è una delle scene iniziali, in cui dalla finestra Angela vede il tempo segnato su un orologio e controlla la sua esattezza attraverso il segnale telefonico per poi raccogliersi, distesa sul letto. Il tempo non vissuto diviene cronologia del vuoto (“Ho trenta anni e non faccio niente”), tempo luttuoso in cui nulla può nascere, poiché il dolore psichico di Angela non ha ancora rappresentazione, ne’ ricordo. In lei non diviene attesa, poiché l’attendere implica una direzione, un rivolgersi della speranza verso le revêries dell’incontro, cui ha dovuto rinunciare. Delicato, a questo proposito, è l’accenno, in una seduta con lo psicoterapeuta, ad un ricordo dell’infanzia, unico momento del rimemorare: “ … quando ero piccola, ero a casa che aspettavo un’amica e ho detto a mia nonna: ‘ sicuramente verrà a giocare con me’. Ero sicura che sarebbe arrivata e invece non è … non è venuta, poi. Pensai che ero stata punita perchè l’avevo dato per scontato e anche perchè avevo usato quella parola troppo presuntuosa …” E’ questo un tenero passaggio che permette lo sguardo fugace al passato di Angela e apre al paesaggio di solitudini infantili, quando la sua anima ferita cercava di far tacere il dolore dell’assenza, trasformandolo in colpa. La parola “tempo”, inoltre, proviene dal latino tempusoris, dal significato dividere, con radice tem, tagliare: Angela non può quindi assumere il tempo, poiché in esso è un’oscura minaccia di perdita innominabile, così come il numero due “… il due per me è solitudine, scissione …”, dirà allo psicoterapeuta. La sua psiche, quindi, rifugge il respiro dello spazio e del tempo, si assottiglia nella costruzione di una mitologia solitaria, dove numeri e colori restituiscano un senso all’esistere senza scelte (“[ senza di essi] ho paura di non esistere più”, confida allo psicoterapeuta). Angela, infatti, in questa prima parte del film, non può ancora scegliere o sciogliere il legame con il nulla, da cui è catturata, poiché vivere il tempo e lo spazio rimanda a vissuti di tagli e lacerazioni, dolori impronunciabili in un mondo che nega le appartenenze. Il conflitto interiore, privato di rappresentabilità, ed esternalizzato in gesti magici, permea la psiche, che quindi rifugge il dividere, la scelta (da ex-eligere, scelgo-sciolgo dall’insieme), Il numero due, che rispecchia una dualità interna, conflittuale e lacerante, e ricerca l’unione, il congiungere che offre equilibrio: il numero tre è composto di un terzo elemento che offre stabilità, lega i primi due in un nodo amoroso. La ricerca d’amore, in Angela, nasce da uno slancio psichico, volto a rinvenire un fondamento dell’essere, esprime la speranza dell’Io a ricongiungersi al fluire libidico dimenticato ed interrotto nella relazione antica ed immobile con la madre. Ricordiamo la scena in cui Angela va dalla madre, mondo delle assenze, in ritardo: non può essere nel tempo poiché manca in lei uno spazio psichico in cui pensare il mondo, in cui comunicare. L’assenza di aree psichiche di elaborazione impedisce l’incontro: nel rapporto con la madre, infatti, si profila la dimensione dell’incomunicabilità, dell’assoluta non corrispondenza tra desiderio e realtà, si oggettivizza il niente affettivo che rende vuoto il tempo e la parola. La madre, infatti non l’accoglie, ne’ la respinge, in uno sguardo che assicura distanze senza pronunciarle e rende immobili i gesti, nel divieto di ogni dinamica affettiva.Quando Angela, nella seconda parte del film, le chiederà aiuto, la madre, incapace di offrire riconoscimento e rifugio, affiderà ad altri la cura. L’aderire all’imperturbabilità materna fa del mondo interno di Angela un universo di desideri taciuti. Così anche nei dialoghi con le amiche o con lo psicoterapeuta prende vita la poetica disperante degli incontri mancati: in assenza della dimensione dell’alterità, essi si rivelano come monologhi senza fine, ne’ inizio, specchio del monologo interiore di una sofferenza che non di fa discorso. Nei delicati toni di un acquerello, la tessitura del film si sviluppa in sequenze brevi ed irrelate: esse parlano di una difficoltà psichica a mettere in relazione le parti interne e ad entrare in relazione con l’Altro. Manca uno spazio transizionale, in Angela, un centro psichico strutturante che congiunga ed integri, cui l’Io è teso: “Jung è meno razionale, più mistico, è per questo che mi piace. Sapere che c’è qualcuno capace di mettere insieme tutto: i vivi, i morti, i sogni…” sussurra allo psicoterapeuta. Nella mancanza d’integrabilità diviene possibile solo la sovrapposizione di parole (nei dialoghi) e d’immagini, l’incontro tra parti è vissuto come implosivo: così nei simboli che abitano la psiche di Angela ogni colore composto è perturbante e viene quindi difensivamente scisso nei suoi elementi originari: “Il problema è il rosa”, aggiunge, “perchè è un misto di rosso e di bianco e bianco è un buon colore e rosso è amore e ovviamente anche malattia”. Il film è ricco di simbolismi, in consonanza all’operare psichico della protagonista. Interessante è la scena in cui Angela trova una chiave spezzata e, attraverso un’ansiosa ricerca, rinviene l’altra metà. “Una chiave rotta è un bruttissimo segno … da qualche parte deve esserci l’altra metà, bisogna assolutamente trovarla …”, confida allo psicoterapeuta. Angela vede nella chiave spezzata una frattura interiore, un discorso infranto con una parte preziosa di sé, il mondo del sentire con cui l’Io vuole inconsciamente congiungersi. Il simbolismo dell’immagine della chiave parla di possibili aperture psichiche ai misteri interiori, rimanda al processo di iniziazione spirituale, verso il dimorare psichico.

 

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  1. avatar Dott.ssa Maria Rita Ferrisays:

    Psicoterapeuta Psicoanalitico
    Formazione Psicoanalitica post Lauream
    “Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.”