Il soggetto con disabilità psichica, poiché non ha un Io che lo precede, è soggettività che rimane gemma, non può s’ouvrir perché mancante. E’ esperto in ciò che precede, in ciò che attende. Esperto dell’attesa, ma non dell’incontro. Infatti, egli ha lo sguardo di colui che torna sempre da un incontro non avvenuto. Soggettività liquida, che richiede un contenitore psichico che tenga e dia compattezza. Compattezza ritrovata nei rituali ossessivi, che ripetono un gesto in cerca del suo senso. Soggettività liquida e latente, che può evaporare e lasciare il soggetto solo al mondo. Soggettività che è un principio di alba, o più spesso, la notte che la precede, che attende l’Alba di un Altro che giunga a soccorrerla. La sua mente ha la complessità e semplicità del bosco. Intrecci naturali la forgiano, che non seguono la logica ma la luce. L’esperienza robotica, avvolta dalla sensibile mente dell’operatore, può apportare il simbolo che manca, perché traccia ponti con realtà altrimenti irraggiungibili, aggiunge la complessità del reale ad una mente che sogna. Può prendere per mano un Io immaturo e, attraverso la conoscenza accresciuta del “come” operativo, svelare il “perché” delle cose del mondo, il loro senso… Poiché, inoltre, l’Io deflette, il suo è un inconscio svelato, la sua stessa vita è il trionfo dell’inconscio. Un Super-Io non formato non può arginare il fiume del mondo interno, ma un Io che esperisce grazie al contributo robotico, è un Io che comprende maggiormente e che si arricchisce giungendo, attraverso un aumento di comprensione, a contenere gli impulsi. E’ il contenimento degli impulsi, che nasce dal conoscere il mondo reale, che è promessa di simbolo, ovvero di un’astrazione nel pensiero. In realtà un dio cieco vive il suo mondo. Immortale ed onnipotente l’Io antico che abita la sua mente non può giungere se non parzialmente al mondo e quindi divenire dinamico e flessibile per dimenticare la rigidità dei tronchi. Le sue ciglia sono un battito d’ali, le sue parole sconosciute al mondo. Il suo è un essere che nacque prima della struttura, e quindi è un essere che precede la struttura, e non vi giunge. Poiché la struttura non giunse a porre confini all’inconscio e a configurare l’esistere dell’Io, egli è figura dell’impossibile e dell’irraffigurabile, lo abita e lo rappresenta, è sostanza che non prende ancora figura, la sua intera vita è una poetica della sostanza. Poiché abita l’impossibile, nessuna forma di dialogo con il mondo si può realizzare, poiché il mondo percepisce l’impossibile come il vuoto-d’essere e lo rifugge. Esso è invece il luogo dove ogni voce trova dimora e ascolto, ritrovando il suo spessore. L’immaturità dell’Io lo rende, inoltre, solo parzialmente capace di rimozione, per cui la struttura mancante e la rimozione incompleta fanno sì che l’oblio non abbia luogo nella sua psiche e la memoria dell’essere primigenio, della Cosa Antica, il sapere del mondo, la Grande Madre o, con S. Freud Das Ding, pur non trovando una forma, sia sempre alla base della sua esperienza e del suo esser-ci. Per questo emana in lui la fragranza della terra, un Io antico, non nato, ci porge il gesto di chi visse senza mai mostrarsi. Ogni sua parola è un’icona di sapere della sostanza, sconosciuta a se stessa; accostando la nostra mente alla sua si ascolta il battito pittografico di una prima volta. Egli non può essere portavoce della realtà (conoscendola solo in parte), ma lo è del reale, di cui è forma nel suo essere antico. Egli, l’éternel inconnu al mondo è specchio della sostanza, di un foglietto originario, del suo nucleo primariamente roccioso, è “ la sostanza che piange”, con Bachelard. Un incipit di Io non è mai abbastanza maturo da accogliere il dolore: è destinato a scindersi, a sciogliersi, per allontanare il dispiacere, e abbandonare sé. Ogni parte dell’Io, infatti, in ognuno di noi, si lega al dispiacere ricevuto e si fa più lontano. Nello scindersi si perde. Le paure, inoltre, non sono nominate da un Io senza simboli, ma da questi patite. Paure senza nome si allacciano all’Io, impoverendolo, e divengono agiti ossessivi come evocazione dell’Altro. Egli, il piccolo Io, ha lunghe ciglia per chiudersi al mondo troppo complesso per essere compreso, ma il braccio robotico diviene il proprio braccio, capace di toccare e sapere cosa avviene in ogni muro. La conoscenza del mondo sempre rende possibile un cambiamento psichico, permette di nominare le cose del mondo e le emozioni interne. Una paura che abbia un nome è già un sentimento e quindi, in parte, nominabile. L’io che si scinde per allontanare il dolore può tornare, così, nella sua casa natale, dove l’attende un cogito dimenticato… L’Io può iniziare un processo di integrazione lì dov’era una ferita o scissione e quindi una perdita di cuore dell’Io che rifletteva la perdita dell’oggetto. L’integrazione di parti interne rende fertile la terra dell’Io e l’essere diviene, quindi, l’incipit di un poema, ricordando G. Bachelard. Gli strumenti robotici sono dunque l’estensione dell’Io nel mondo, la possibilità di toccare e comprendere e, internamente, la possibilità di abbracciare le pulsioni, placare il battito del cuore. La capacità di contenimento pulsionale è la base del Principio di Realtà, e quindi del trovare un posto nel mondo. E’ l’incontro con la Realtà che modula l’Io e lo fa più maturo, il ritirarsi da essa è la perdita di un sogno: il sogno di sorgere in essa, di rendere reale il battito d’ali del desiderio. Creature del sottobosco, ne temono il limite ma ne seguono le leggi.
Creature il cui pensiero è un sussurro, in cui l’Io sosta dinanzi all’oggetto, reso immobile dalla mancanza di simboli. Distanti dal mondo ne temono la luce e le voci. Il linguaggio è linguaggio di “cosa”, indica le cose del mondo che si offrono come possibili: il loro Io non ha segni per significare ciò che accade. Attendono una tempesta necessaria, figli di un tempo non compiuto. L’Intervento robotico permette all’Io un’evoluzione psichica che gli era stata interdite. Poiché, infatti, l’esterno è, a volte, madre dell’interno, ogni arricchimento di esperienza struttura e fa evolvere l’Io e con essa il senso di sé, specchio interiore che modula l’umore. Un évolution interdite è un pensiero violato, l’operatore avvolge di gentilezza il piccolo robot e ne farà un ramo esteso dell’Io dell’Altro dove gemme sconosciute possano di nuovo poggiarsi. E ciò perché egli ha in mano ciò che può sciogliere nel soggetto il pensiero dalla terra in cui nacque. La possibilità di implosione psicotica è l’estrema difesa da un mondo troppo complesso da divenire violento per una mente che sussurra e che non ha parole per congiungere le differenze. In tal modo esse implodono in una mente che non può che chiudersi ancora e poi ancora per non essere ferita dal troppo. C’è un troppo di significato, infatti, nel mondo, laddove l’Io non acceda al significante. E’ il suo stesso mondo interno che non giunge a significare, ma si configura, per così dire, come arcipelago di sensazioni-emozioni, come “penombra di associazioni”, con W. Bion., che cercano mani che si congiungano per accogliere una sostanza mentale incandescente che precede il pensiero, e lo faccia divenire significante. Se il due è precluso (la complessità del due è temuta e inarrivabile), l’Uno è necessario, Uno come essere uno con il mondo, Uno come il sintomo ovvero unica azione possibile, come rincorrere il cibo o rincorrere il vento fino ad essere il vento, e farlo fino a nascere da lui, ovvero avere un Io che si afferma così, attraverso la ripetizione del Medesimo. Tale bisogno giunge a far sì che egli diventi uno con l’Altro, o ombra dell’Altro, eco di voci mai davvero familiari. Non conosce le cose nel loro apparire, perché troppo sottile il velo che le copre, ne conosce dunque la sostanza, il segreto calore di un bottone o di un panno che si svela solo a chi vive nella fragranza terrosa del mondo. Vivono nei trabocchi e bisogna conoscere il mare per poterli avvistare. Lo sguardo è sempre rivolto al mare, all’unità del vivere, dove ogni ritmo è stabilito da un segno pittografico. Vivono al di fuori del loro corpo, negli spazi dei campi, e ogni oggetto ha per loro la voce e lo sguardo del fabbro che forgia la luce. Cullano se stessi con voce accennata, in un ritmo che non tace, il ritmo del cuore. In loro vivono lembi di psiche da congiungere. Chi appartiene, come loro, a due discorsi, (“Il flotte entre deux discours”, Sem.XIX, J. Lacan) il leggendario mai disgiunto, ma confuso con la luce di realtà, non può che oscillare tra i due, non ha mai proprietà di scelta, perché una vita divisa non raggiunge alcun diritto di sognare. Chi può sognare? Solo chi appartiene al giorno, al discorso vivente, e può dunque cedere alla notte, giungere al fantastico, appartenervi solo nel sogno, in uno spaziotempo definito. Chi invece ha vita solo tra notte e giorno, vive in un crepuscolo perenne. Chi vive solo tra vita e psicosi, non appartiene ad alcuno, è sempre in penombra e non può, dunque, distinguere. Il sogno nasce da una distinzione, o meglio, da una scelta naturale. Scelta di essere creature del giorno e riporre nel sonno ciò che nutre e ricopre l’Io, lo protegge. Non ha dunque protezioni, solo la chiusura del volto. Lo sguardo che si perde o raggiunge il volo di un piccolo insetto. Egli scopre, attraverso l’esperire robotico, un qui ed ora, una differenza tra qui e lì, tra cielo e terra, una distribuzione dello spazio lo rende attraversabile, rende le cose del mondo più umane e possibile avere un posto nel mondo. Nel mondo interno, poi, una coltre di concetti, incontrati nel vivere, può ricoprire un inconscio troppo slegato e congiungerlo con un sapere che si aggiunge ad un sapere già avuto, il sapere dei fiori, che lascia sconosciuti nel mondo. Il sapere del mondo sempre è il calore dell’Io e conforta la mente. Se il mondo ha una misura, avranno misura le sensazioni che da esso hanno origine, divengono emozioni e nasce il dialogo, non solo con il mare, ma con il proprio esserci. L’Io conoscerà un mondo interno E lo avvolgerà di un confine con il mondo esterno. Un ordine interiore frenerà la perdita. Il grande lutto di una piccola mente è nel sentimento di non esser-ci. Di guardare dall’esterno un mondo-che-vive senza di lui, poiché ha coscienza di un Io mancante, e non conosce il come, ed il perché. Raggiungendo il mondo del significante, l’inconscio sconfinato del soggetto, trova nell’Io il suo limite, la sua preghiera, e come il mare raggiunge la riva, dove sorge per unirsi al mondo.. L’Io trova il suo riparo, sviluppa un suo sia pure fragile discorso biografico che sempre mancò. Scrivere una biografia è, per chi non lascia orme, un sogno raggiunto. Tessitura troppo leggera per non strapparsi agli urti delle cose, la sua è una biografia dal fragile suono. Il mondo la dovrà proteggere finchè non giunga ad un punto di legame interno in cui potrà sostare. Non avere biografia è non avere fine. Qui il suo fascino: conosce ciò che dura, è in contatto con la sostanza. Fragilità di pensare il mondo, non la sua orma. Fragilità nelle mani, mani di sale che non possono prendere il reale, ma solo assaporarlo e sciogliersi in esso. Non conosce forse la realtà ma conosce il vero, cioè il suo sapore, poiché noi sappiamo che egli è l’unico che sa che”…la luna, questo grande uccello biondo, ha il nido au fond des bois…” con G. Bachelard e A. Bousquet.
Psicoterapeuta Psicoanalitico
Formazione Psicoanalitica post Lauream
“Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.”