Ti do i miei occhi: psicoanalisi del film

All’origine della vita l’Io del piccolo non può percepire la separazione dalla madre, prima di aver integrato dentro di sé le immagini del mondo, il proprio amore ed odio e sentirsi quindi vivo dentro un confine psichico che lo contiene e lo ripara.

E’in tale confine che egli potrà sognare-pensare il mondo, sentire che gli oggetti sono esterni al Sé e creare legami d’amore con essi. Egli accede così ad una dimensione psichica di separatezza dall’oggetto, in cui lo può pensare, ricordare, attenderne il ritorno e non temerne l’assenza. Se l’illusione è interrotta precocemente, dicevamo, o la psiche della madre è abitata da un dolore che la sottrae dall’essere affettivamente uno con il piccolo, le cure materne non potranno formare del tutto il mondo interiore del bambino e favorire in lui il buon impasto pulsionale, ovvero l’integrazione dell’amore e dell’odio, l’Istinto di Vita e l’Istinto di Morte. Tali pulsioni saranno sempre debolmente legate tra loro e con il ritorno nella vita adulta di un’esperienza così traumatica perché così precoce (sentire l’oggetto amato separato da sé) che rievoca la fine della fusione e il sentimento della madre assente o della madre morta, tali pulsioni, l’amore e l’odio, tornano a scindersi di nuovo. E’ così che l’odio non trova nella capacità di amare ciò che lo potrà lenire e mitigare, ma sciogliendosi del tutto dalle immagini amate impedirà al pensiero di contenerlo, abbattendosi sul mondo. L’illusione di ritrovamento dell’antica fusione si accende nell’incontro adulto d’amore. Chi, come Antonio, dovette rinunciarvi troppo immaturamente, nonaccetterà di perderla ancora. Con Pilàr Antonio rivive l’antico trauma, il dissolversi dell’oggetto prima che egli fosse maturo, il fading, (espressione evocativa che “indica il momento in cui l’innamorato sente venir meno il desiderio nell’oggetto del suo amore…uno svuotamento, uno svanire…” R.Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, in G.Civitarese), nel sentirne la crescita della soggettività, l’individuarsi di Pilàr, come separazione da sé e abbandono della fusione (“…è diversa, diversa…” dice Antonio disperato parlando di lei al terapeuta). Il suo odio si scinde dalla capacità di amare e si abbatte così sull’oggetto amato che, poiché afferma di essere esterno, cioè afferma la propria individualità, è scomparso come oggetto buono, perduto alle origini e ritrovato nella vita adulta, oggetto buono che dà la vita (“senza te non posso vivere” afferma più volte A. a Pilàr) ed è divenuto, agli occhi di Antonio, un oggetto crudele e cattivo, morto, perché non più desiderante, e che dà la morte, come l’antica madre che precocemente svanì. L’odio è quindi una forma inconscia di negazione e annullamento magico della dipendenza dall’oggetto, e quindi della sua perdita, attraverso il suo opposto: il disprezzo ed il trionfo maniacale e crudele su di esso. La necessità di negare la dipendenza nasce dal bisogno di annullare il dolore che ne derivò. Come risposta alla morte psichica, l’odio diviene la difesa estrema dall’andare in frantumi, in seguito all’assenza dell’Altro percepito come oggetto-sé, ovvero come estensione del soggetto. L’agito maltrattante rappresenta anche una disperata richiesta di integrazione con l’oggetto, che esso torni ad essere parte di sé. Ma ad un livello più profondo tale agito è un tentativo magico e fatale di ridare vita ad un oggetto morto, attraverso l’urto. In Antonio l’antico e rinnovato dolore psichico della separazione dalla madre, non pensabile poiché l’agire ha sostituito in lui il pensare, viene inferto sull’Altro come dolore fisico. Possiamo dire che egli ripete il trauma inconscio delle origini capovolgendolo (non è più lui la vittima, ma l’Altro) e identificandosi con la madre morta che dà la morte, come in Pshyco di A. Hitchcock. Il sentimento della rabbia, dell’odio, inoltre, ha la funzione inconscia di dare compattezza alla soggettività lacunare, è un tentativo di riparare la discontinuità dell’Io, rivelata dalla perdita dell’oggetto-Sé adulto. Era l’oggetto, Pilàr, infatti, che prima di allontanarsi, ovvero diversificarsi da lui, riempiva il vuoto psichico di Antonio, completava il suo Io, come vero oggetto Sé, donando a lui la propria soggettività. Senza di lei egli è pervaso dall’angoscia profonda che sottende l’agito maltrattante: il separarsi dall’oggetto d’amore, vissuto come essere lacerati e strappati dal corpo della madre. L’odio di Antonio vuole distruggere in Pilàr la cattiva madre delle origini, che gli dava la morte psichica, allontanandosi precocemente da lui, egli vuole uccidere, colpendo lei, la propria dipendenza dal “…corpo della madre, sentito come ciò cui si apparteneva prima di esistere” (G.Civitarese), come terra che precedeva l’Io e il simbolico, il linguaggio e la soggettività separata. L’oggetto assente (che tace, o si assenta mentalmente, o non guarda o si diversifica, Pilar che trova lavoro, o si allontana, pensa di andare a Madrid) non è mai, nella mente paranoide, percepito come assente perché vorrebbe dire percepirlo come morto (ricordiamo il sentimento del dissolversi dell’oggetto o fading in R. Barthes). Esso viene percepito come cattivo, che dà dolore e tradisce. Nel pensarlo ostile e persecutorio (“mi vuoi provocare” grida Antonio a Pilar) il protagonista trova un modo per continuare a sentirlo vivo. E poiché non può pensarla, ma solo percepirla debolmente e sensorialmente, Pilàr non è mai del tutto sua, lui non la possiede internamente. Perché possiamo affermare questo? Perché il pensare nasce dalla capacità di tollerare-percepire che l’oggetto è esterno a sé, perdere la fusione con esso e accettare la separazione per generare, in sua assenza e a suo ricordo, un’immagine affettiva, un pensiero, che viva dentro la psiche. Tale immagine è l’oggetto-sentimento di A.Racabulto. Coltivando e avendo cura dell’immagine interna dell’oggetto amato troviamo consolazione e contenimento al dolore quando esso è assente e tolleriamo l’attesa del ritorno. Antonio non può farlo perché non ha potuto sviluppare, non tollerando il pensiero della separazione, un’immagine interna di lei. Per questo non la possiede, perchè non può accettarne l’assenza. Nella scena in cui i suoi partners di terapia, inoltre, che rappresentano simbolicamente la sua immagine speculare duplicata nello spazio, non riescono nel gioco dei ruoli, si evidenzia che tale difficoltà nasce dal fatto che per tutti loro l’oggetto non è interiorizzato, ma è vivo solo nella realtà esterna, quindi, non potendo percepirlo esternamente perché assente in quel momento, non riescono a trovarlo dentro di sé per riprodurlo o ricrearlo. Per tali motivi, dunque, lei non è del tutto sua, e poichè non vive internamente a lui, ma solo nella realtà percepibile, può sempre perderla. Esiste solo all’esterno, e se la perde all’esterno è del tutto e per sempre. Poiché non può ritrovarla internamente o ricrearla nel suo mondo interno la può solo controllare e non “perderla di vista”come ricorda J.B. Pontalis perché nel suo modo di essere al mondo, la perdita della percezione dell’oggetto coincide con la sua perdita reale. Se lui, infatti, non la vede o non sente la sua voce, quando Pilàr non risponde al telefono o non conosce i suoi pensieri, quando Pilàr tace, è come se lei fosse svanita, morta o perduta per sempre. Perdere lei è per Antonio perdere il suo oggetto-Sé (Kohut) e la propria integrità psichica che si formava dall’illusoria integrazione fusionale con lei. Per questo è del tutto sincero quando, nelle scene finali, di fronte alla scelta di Pilar di lasciarlo, lui grida: “senza di te non vivo, se mi lasci mi ammazzo, se te ne vai mi suicido”. Solo alcuni cenni sul mondo inconscio di Pilar. Anche lei, anche se in forma molto più lieve, non ha potuto ultimare lo slegamento psichico dalla madre. In Pilar, infatti, il ripetere la storia della madre rappresenta un modo inconscio di ristabilire la continuità interrotta attraverso un’identificazione primitiva con lei: essere come l’oggetto, ripetere le sue dinamiche affettive di coppia, è un modo inconscio di essere con l’oggetto, con una madre che non si fa raggiungere. Il suo bisogno profondo di appartenenza le fa scambiare per amore la dipendenza di Antonio, che riflette, in parte, la sua. Ci troviamo, inoltre, di fronte a una “coazione a ripetere” tra le generazioni, ovvero ad un ripetersi transgenerazionale del trauma del maltrattamento. Pilàr si trova infatti, con Antonio, a rivivere il dramma della madre, inalterato, “il perpetuo ritorno dell’uguale”(S.Freud, Il Perturbante,1919). Forse inoltre Pilàr può accettare di essere picchiata per uccidere, attraverso di lui e in se stessa, un antico oggetto materno morto perché assente emotivamente (come la madre sembra essere ancora), interiorizzato e che la deprime. L’esistenza in lei di un oggetto materno morto, ovvero la depressione stessa della madre che Pilàr ha fatto sua, è suggerita nel film dal paesaggio cimiteriale in cui sempre incontra la madre, una presenza della morte nell’ambiente esterno che riflette l’esistenza psichica di una morte interiorizzata. Ma accettare l’agito maltrattante su se stessa è anche un atto d’amore inconscio verso la madre: assume su di sé, oggi la violenza subita nel passato dalla madre per salvarla magicamente, prende su di sé la morte in sua vece, per ridarle la vita. E poiché anche per lei “la madre arcaica è il prototipo di ogni relazione intima successiva”, Pilàr dona, alla madre inconscia che ama in Antonio, i propri occhi, per poter essere vista una prima volta da lei e quindi esistere.

Nome spettacolo
  1. avatar Dott.ssa Maria Rita Ferrisays:

    Psicoterapeuta Psicoanalitico
    Formazione Psicoanalitica post Lauream
    “Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.”