Melanconia nell’indigenza e psicoanalisi V

Laddove il soggetto in lutto conosce la perdita dell’oggetto, sia che lo elabori come non, il soggetto melanconico la “disconosce”, ignora cosa sia stato perduto, (cfr. S. Freud Lutto e melanconia1917, in Opere, cit., vol. VIII), percependo di dimorare nel niente da sempre, e dunque nell’ Hilflosigkeit, in cui nessuno giunse ad accoglierlo. La mente del soggetto melanconico non sa da dove abbia origine il suo lutto, afferma che la sua vita sia stata da sempre perduta, da sempre distante dal mondo. Egli ricorda di non aver mai avuto una struttura psichica capace di affascinare e riuscire a trattenere oggetti, ed inoltre il suo essere in esistenza include da sempre il non esser-ci emotivamente. Egli ha conosciuto troppo precocemente la caducità delle cose, o la loro ineffabilità, a causa del venir meno del desiderio nello sguardo materno su di lui, per cui ora egli sposta sull’intero mondo la fine di ogni desiderio. Per cui, se per Pablo Neruda “… L’amore estinto non è la morte, ma un’amara forma di nascere…”(cfr. P. Neruda, 1964, Memorial de Isla Negra), nella melanconia l’infrangersi del sogno d’amore o di un progetto identitario porta con sé l’oblio di ogni possibile nascita. Nell’intento di mai più amare o sperare, nel rigetto al richiamo dell’Altro, il suo essere in vita si restringe in un campo di sola esistenza vitale, posta su un piano tra i più “semplici ed urgenti”. Perdette un oggetto nel momento che giunse a legarsi inizialmente ad esso, il lutto che ne seguì produsse il porre la sua esistenza nel niente con cui si identificò, di qui egli credette nel crollo inevitabile di ogni legame, come suo destino biografico. Egli solo al mondo non può più sperare, perché, a differenza di Altri, non lo merita, ne è indegno.

Infatti, non potendo conoscere l’origine del lutto che ha dato origine alla sua vita, sa che il suo essere è sempre stato mancante, perché la sua mancanza è nella sua intima struttura, per volere di un destino crudele, che conosce la sua indegnità. Nulla può avere effetto sul suo dolore, la libido è da lui rigettata, così come la guarigione, nella certezza che nulla può avere effetto sulla sua mancanza d’essere, forse gli stessi rimedi possono essere d’effetto per altri ma non per lui. Egli nega ogni possibile interesse per le cose del mondo. Si nega ad ogni invito della vita ad offrirsi una seconda chance. Egli ha perduto, dunque, la possibilità di vedersi degno del desiderio, suo e di altri, e, dunque, di entrare in relazione con le cose. Riconosce l’esistenza del mondo, ma disconosce alcun possibile legame d’affetto con esso. Tale diniego di rapporto con le cose del mondo, nasce dalla necessità di evitare che l’esperienza delle origini torni in nuove forme e con nuovi nomi, difesa arcaica che matura attraverso l’identificazione col niente che, nell’evitare il ritorno dell’antica perdita, la rende eternamente presente, sia come pericolo sempre pronto ad emergere che nel niente che ne derivò. Egli conosce il reale, ma nega di aver alcun rapporto ormai con esso. Egli infatti si vede come indegno ad entrare in alcun scambio affettivo con l’altro, come estrema difesa all’eventualità che l’Altro venga meno, lasciando nuovamente il soggetto in uno stato di glaciazione dell’Io. E’ nella mancanza a venire dell’Altro, infatti, che crede il soggetto malinconico, è per questo che ne declina ogni richiamo o invito, la sua certezza di non poter essere l’oggetto di desiderio lo difende da un nuovo addio, in cui le parti di sé non potrebbero mai più ricongiungersi, perché il suo inconscio sa che, perdendo l’Altro egli perse se stesso e ogni possibilità di essere. Decretando la propria morte emotiva, si pone al riparo dal ripetersi di tale catastrofe. A questo aggiunge, come rafforzamento, la convinzione di essere indegno di alcuna intenzione desiderante di altri.

Il soggetto malinconico non conosce l’angoscia, continua M.C. Lambotte, poiché occupa il posto del niente, di ciò che non avvenne, ciò che “sarebbe dovuto succedere”, identificandosi con ciò che non ha mai conosciuto. Ha ucciso la dualità, dunque l’angoscia tra l’avere e la perdita Non ha desiderio, né castrazione, non può rimuovere una traccia sospesa d’incontro. Possiamo dunque esser certi che egli non abbia nulla a che vedere con la mancanza, regno del desiderio e del conflitto, come nel pensiero nevrotico, dove è legittima una domada.. Persegue tenacemente una fine coerenza tra il silenzio emotivo interno e il nulla desiderabile esterno, tra il suo niente d’essere ed il non-sense del mondo. Il non-sense del mondo ha una sostanza rocciosa che somiglia all’imperturbabilità del suo pensiero. Nessun oggetto è per sempre e dunque non desiderabile, l’esperienza precoce di ciò ha prodotto un pensiero non desiderante e quindi, che pur vivendo nel dubbio, lo disconosce come disconosce il sogno. Poiché non ha conosciuto l’oggetto, ma il suo profumo, che a nulla rimandò, afferma che non esista nulla di ontologicamente desiderabile nel mondo, solo un ingannevole profumo d’essere. Il suo pensiero, racchiuso nel negativismo, non ha domande. La realtà è effimera in sé, la cui fragranza è l’inganno, che viene rigettata come menzogna esistenziale. Nella sua mente si assiste ad una espansione del fallimento dell’antico progetto di cui, possiamo dire, la perdita economica è voce autorevole che sancisce l’impossibilità di ogni rêverie di aver sostanza, fino a divenire affermazione cosmica della caducità di ogni cosa e quindi il niente di alcun discorso. Egli, occupando il posto stesso della mancanza non può né mirarla né pensarla, non rende possibile l’angoscia”… la quale sottolinea la naturale inadeguatezza della risposta necessariamente falsa alla domanda necessariamente ingannevole” (M. C. Lambotte, Il Discorso Melanconico, Roma, Borla 1999, pag 379).

Egli mantiene, nella perdita di tutto il desiderabile, una topologia immutabile, ma fragile, che consiste nell’occupare lo spazio del vuoto che cancella ogni possibile distinzione tra domanda e risposta. Fragile perché il minimo spostamento da tale posizione di negativismo assolutizzato porta con sé il rivelamento del vuoto sottostante. Il soggetto malinconico può cadere, sì, in un’angoscia senza contenuti coscienti, pericolosamente densificata dal sapere dell’inconsistenza delle risposte che possono essere proposte. Ciò spiegherebbe il perché dell’agito suicidario, presente, spesso, in un momento di miglioramento sintomatico. Nel suo momentaneo spostarsi dall’occupare il vuoto, in un possibile risveglio del desiderio, esso non è più da lui riempito e quindi rivelato in tutta la sua realtà insopprimibile, né più celabile. Egli non percepisce alcuna differenza tra sé ed il vuoto, diviene improvvisamente in contatto con la propria fragilità d’essere, sa di essere un foglietto che può svanire se la sua domanda di legame incontrerà il nulla una seconda volta. Nessun sogno di cornice potrà giungerle a salvarlo, perché il nulla d’essere  è un destino ad essere nulla. E perché la cornice è sempre un raccoglitore del vuoto, ciò che lo argina ma non può frenare, ed è il vuoto di senso che l’assenza di risposta al suo primo desidero gli ha consegnato come segno del destino che il soggetto può scegliere il vuoto non più come scelta simbolica, ma come vuoto reale in cui svanire. Attratto dal vuoto della cornice (i ricordi di un incontro effimero con la madre o un effimero esser-ci sociale, dopo la smentita della perdita dello sguardo e la sostanza) egli non cessa di amare , come unica realtà, il niente d’anima che la cornice raccoglie. Il suo è un discorso senza affetti, un discorso bianco, in cui la logica è funzione di un “livellamento” emozionale, in cui l’aridità è riparo dall’implosione.

L’anaffettività del suo pensiero, il niente emotivo che lo connota, parla silenziosamente di un essere inscritto nella perdita ineffabile di un quid che non ha rappresentabilità. Ma il niente emotivo non è che l’espressione esistenziale di ciò che profondamente sa di essere: un resto di un discorso mai iniziato, egli appartiene al mondo degli esseri eccedenti. La sua libido, sottratta ad ogni possibile forma fantasmatica, si conforma al livello di ciò che il soggetto sa di essere il vero, livello blanc di coscienza, in cui il vero coincide con la somma delle percezioni, senza mai giungere a forme di simbolo, essendo la rappresentazione abolita, se non quella di una cornice vuota che nessuno riempì di senso. Il vuoto della cornice è un vuoto cui sente di appartenere, da cui a fatica si sottrae proteggendosi attraverso un attaccamento ai bordi, come abbiamo visto, ma cui sa che ad esso dovrà giungere, facendo combaciare in una scena finale e fatale, ciò che sa e ciò che è. Ma perché tale attaccamento passionale al nulla? Perché il niente annulla d’un colpo, trascendendole, tutte le possibili immagini di sé che non abbiano confronti con il modello ideale che il soggetto ha incontrato alle origini e che dal quale, da allora, non può sciogliersi, poiché il riferimento ideale…è l’Altro che lo attende. Il negativismo gli conferisce una forma di identità capovolta: poiché non può essere l’ideale,  egli è il suo contrario, un niente pur vivente. Il negativismo, questa cieca fede che nulla abbia senso e soprattutto la propria identità, tanto da riconoscerla come un niente dell’esistente, ha appartenenza all’area della pulsione di morte. Dunque si tratta di una difesa che precede il fantasmatizzare, mai sostenuta né che trovi senso in alcuna rappresentazione, poiché la precede. Il negativismo è, infatti, la prima difesa che appartiene alle origini della strutturazione di un Io primitivo, che precede la distinzione tra un interno ed un esterno. Il negativismo, mentre offre un riparo all’Io da eventuali possibili investimenti e, pur fornendo un’identità che non lede  il modello ideale che lo ha preso a cuore, nel perseguitarlo, e quindi mai abbandonandolo, è l’effetto di un après coup che ricostruisce l’essere avvenuto del dramma  della scomparsa dell’Oggetto, dramma che l’Io non può affermare con l’aiuto di alcuna rappresentazione, rappresentazione di necessità mancante e sostituita con l’idea del destino che ha funzione di significante.

E’ opportuno ricordare la distinzione espressa da S. Freud in  Lutto e Melanconia, per cui l’oggetto perduto in entrambi i casi si inscrive nel mondo del ricordo di rappresentazioni di cosa, e quindi nell’inconscio, ma mentre nel lutto si lega a tracce memoriali di parola del preconscio, divenendo per tale via cosciente, nella melanconia questa possibilità  è inibita dall’immaturità psichica, lasciando il soggetto del tutto ignaro su cosa abbia perduto, e, quindi, quale sia la causa della sua sofferenza. Questo stato di cose lascia il soggetto melanconico del tutto smarrito rispetto agli inizi del suo dolore e del mancamento del suo desiderio, fornirà la spiegazione di un evento che assume, inconsciamente, lo scopo di dare legittimità al suo negativismo. Tale modalità melanconica di articolare il pensiero, il negativismo, è l’estensione di un cielo senza stelle, l’universalizzazione di quella perdita antica e attuale dell’Oggetto e al tempo stesso del senso. L’evento cui si riferisce il soggetto melanconico, come causa ed inizio del suo patire, è in realtà un ricordo di copertura, avente la funzione di colmare il nulla rappresentativo della Cosa perduta. L’attribuzione melanconica di un’eziologia al dolore ad un evento di perdita d’oggetto segue una poetica disaffettivizzata, un procedere logico che escluda ogni coinvolgimento, esponendo cosi, assieme, ferite e cicatrici o velamento del vero. Tale logica che esclude gli affetti è l’unica possibilità di rappresentazione della catastrofe. Quando l’Altro del desiderio scomparve, scomparve l’Io a se stesso, rimase solo la sua domanda intima, ma nessuno più a cui rivolgerla.

 

  

 

 

 

 

 

 

Nome spettacolo
  1. avatar Dott.ssa Maria Rita Ferrisays:

    Psicoterapeuta Psicoanalitico
    Formazione Psicoanalitica post Lauream
    “Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.”