Melanconia nell’indigenza e psicoanalisi IV

Corrisponde, inoltre, la buona capacità economica, all’idea di eternità dell’Io, che sottrae ad una verità sempre troppo precoce da scoprire: la caducità delle cose del mondo. Idea di eternità che si forgia nella “capanna natale” del Sé familiare e avvolge l’infanzia nel caldo buono dell’inverno. Eternità che fonda un tempo senza attese né ricordi, ma solo rêveries di “fiumi e cieli di un altro secolo”, con G. Bachelard,  e che può rendere il domani non più crudele, ma un’estensione dell’Io. Una buona economia è una collettività internalizzata e benevolente, il cui sguardo è il Super Io del soggetto, che regge l’autostima e L’amore di sé. Nell’Io il benessere è il collante che tiene ensemble e riempie l’Io di buoni frutti, ripara dallì’ orror vacui in cui la coscienza della caducità dell’essere trattiene. Tiene, infatti, unito l’insieme morcélé  dell’Io, uniforme nel suo venire-ad-essere, raccoglie le angosce di orfanilità  e si pone al posto dell’ombra genitoriale che proteggeva la fragilità  di una vita infantile mai finita. La perdita economica è sempre la perdita di un’identità sociale, dove anche gli ultimi padri hanno fine, e quindi lutto che trascina in una orfanilità definitiva il soggetto, attribuendo a lui stesso una responsabilità non raggiungibile da alcun perdono. Aver perduto il ben-essere è il trionfo di Thanatos, cfr. Sigmund Freud Jenseits des Lustprinzips, tr. It..Al di là del principio di piacere (1920), (OSF) vol. 9. L’Io e l’Es e altri scritti 1917-1923, Torino, Bollati Boringhieri, 1986 e quindi sconfitta del  diritto di essere al mondo.

E’ buio assoluto, che precede la luce. Cancella ogni forma di vita adulta consegnando l’Io alla “casa-natale che ha l’infanzia immobile tra le braccia”, (cfr. G. Bachelard La Poétique de l’espace, 1957, La poetica dello spazio, trad. di Ettore Catalano, Dedalo, Bari, 1975, 1984). Perdita come condanna ad essere altro- da–sé, fuori campo, dietro i vetri da cui veder passare la vita che diviene sempre e solo vita d’Altri. Rimpianto di non aver fermato lo sguardo, di aver perduto in un attimo ciò che lo aveva fin lì tenuto in vita. La perdita economica sottrae all’Io non l’abitare, ma la sosta, il rifugio, lo rende creatura di strada, dove il discorso è tra stelle ed alberi, ma in cui non può entrare se non con un dolore muto. Egli è inserito solo nel discorso melanconico e folle delle foglie d’automne. Un’infanzia d’autunno si apre all’Io verso un inverno che non ha inizio. Nulla può tornare ad essere proprio, se la perdita è l’identità. Il pensiero è nuovamente pittografico, semplificato, quasi sillabico, non avendo più oggetti su cui riflettere. Il vuoto è il suo nuovo oggetto. La sua vita diviene “sostanza che piange”, perché non crede più al miracolo della Fenice, al risollevarsi e tornare a vivere in un volo di fuoco. La sua vita era un affacciarsi su una cisterna d’acqua che conteneva la luna, ma ora sa che era luna d’Altri. Nulla più ha nome, per un dolore troppo muto per essere compiuto. Un dolore, dunque, che rimane compresso e non può essere diluito nell’Altro. Il ricordo di fortune, divenute d’ emblée antiche, ritorna come nuova, illusoria, occasione e certezza di nuovo dolore, perché è senz’altro vero, in questo caso nella memoria,  come ci ricorda Pier  della Vigna: “…che ‘lieti onor tornaro in tristi lutti” (cfr. Dante Alighieri La Divina Commedia L’Infernocanto XIII,vol. 1, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Firenze, Le Monnier, 1988).

Il volto di chi non ha più nulla, che pure aveva, su cui poter poggiare un progetto, parla silenziosamente in una dignità che è ultima a svanire, e rivolgendosi all’indifferenza che lo avvolge nella collettività sembra, con Dante nelle parole del Conte Ugolino, affermare al mondo: “Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli  pensando ciò che il mio cor s’annunziava;  e se non piangi, di che pianger suoli?” (cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia L’Inferno, cantoXXXIII vol. 1, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Firenze, Le Monnier, 1988).  Egli vive una diminuzione di essere dovuta ad un umanesimo interrotto, grido muto che ricorda  L’Urlo (1893-1910) di Edvard Munch, grido fra strada e tramonto, che conduce alla disgiunzione del proprio nome, della sostanza del proprio nome. Egli decide di vivere nell’ombra, incipit di caduta in un vuoto d’essere. I colori assumono la malinconia del blu e violette oscure seguono i suoi passi, vive nella soffitta del mondo , dove, d’improvviso, le rêveries del ricordo infrangono l’anima. Perdette la sua vita rocciosa, i suoi metalli terrosi e di pregio, che pure strinse tra le mani. Ed ora ogni ombra diviene sostanziale, ha la consistenza che prima fu sua, poiché la sua vita è fugace, vita ombrosa ed evanescente. Il peso è nel dare senza averne la forza.. La poetica del perdere è la poetica in cui il passato ha il suo trionfo, il mondo di una prima volta. Non ha più un doppio sé, da nutrire, da veder crescere e proteggere. Ha un unico sé che lo sfiora con indifferenza Vita che rende pietra. Un male così profondo, da slegare sé da sé, ricorda il famoso verso dantesco nella selva dei suicidi: “L’animo mio… ingiusto fece me contra me giusto” (cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia L’Inferno, CantoXIII vol. 1, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Firenze, Le Monnier, 1988).

Egli è, a volte, il poeta di sogni di altri, poiché ha perduto i propri. Avendo perduto se stesso, attraverso lo scacco sociale ed umano, non resta che identificarsi con il niente, ‘niente’ è il suo nome, il suo essere  stato trovato nel mondo e non raccolto da alcuno. Tornando al pensiero di M.C. Lambotte, possiamo senz’altro affermare che il suo esistere è quello di una forma non compiuta, scissa dal contenuto cui aspira…una cornice vuota, come gli occhi della madre, vuoti di desiderio e quindi di vita. Vive in lui un ideale di perfezione che somiglia all’Ideale dell’Io cui aspira per colmare quel vuoto di affetti che lo aveva condotto a inseguire il passato di un altro… Egli, rigettato dal non-desiderio o riconoscimento sociale, si percepisce come l’essere di un altro, da raggiungere per iniziare a vincere l’invisibilità caduta su di lui. Un foglietto che si duplica sperdendosi nel niente: nella sconfitta economica e sociale il soggetto sente di essere smentito nel suo diritto a vivere, ad avere una forma e contenuto coesi e coerenti, una compattezza dell’Io che lo protegga da ogni caducità. Al venir meno dello sguardo sociale, come quello con la madre, con M.C. Lambotte, alla perdita dell’identità, egli si percepisce nell’inconsistenza di un piccolo foglio, icona appena accennata, vede il suo doppio allontanarsi da sé fino a svanire. L’identificazione del soggetto melanconico, dunque, non primariamente con la sua immagine speculare, perché questa, un attimo configurata svanì con lo sguardo della madre, fu con il niente che ne derivò. Il discorso melanconico ne dà conferma essendo incentrato sul niente d’essere, sul niente che lo sedusse nel primo sguardo. Il soggetto melanconico, infatti, tende fortemente ad inseguire lo sguardo che l’ha attraversato, nel tentativo di conquistarlo a sé. Il niente, dunque fu il suo primo oggetto di seduzione, ed il ritorno al niente sociale è un ritorno regressivo alla prima défaillance dell’Altro, da cui ebbe inizio il suo essere donato al niente. “Vittima di un primo sguardo che lo avrebbe solo attraversato, senza circoscriverlo, rendendolo di conseguenza trasparente, il melanconico eredita quel “punto” inaccessibile a cui mira perché crede, raggiungendolo, di recuperarne la propria immagine…” (cfr. M.C. Lambotte, op. cit.pag 256).

Non aver potuto aderire al modello di perfezione che l’Ideale poneva come riparazione della frattura con il volto della madre, che la povertà sopraggiunta conferma, ha come prezzo l’infrangersi dell’identità fin lì raggiunta. In effetti la riuscita sociale aveva in sé un progetto ben più ambizioso, il riempimento di gioia nello sguardo materno, e cioè  che “ tutto accadde di ciò che doveva accadere”, modificare, nel suo inverso, un destino precocemente crudele: il soggetto melanconico affidò al successo economico tale missione  dal felice esito, ma laddove tale progetto non si raggiunse, tornò il destino segnato delle origini a cancellare l’Io e i suoi progetti identitari. In tal caso il soggetto sente di essere sempre stato une chose, una trasparenza evitata dal mondo, anzi egli vive in un mondo d’altri, che egli stesso cessa di amare ed investire. Egli guarderà d’ora in avanti il mondo con lo stesso sguardo siderante con cui lui stesso fu guardato, egli estende sul mondo lo stesso sguardo blanc che lo attraversò e con cui si identificò. Il dover rinunciare ad assumere in sé l’immagine dell’Ideale dell’Io lo precipita in quella discontinuità identitaria che infrange l’illusione di ritrovare l’unione con la madre archetipica, Das Ding, con S. Freud, tradotta e ripresa da Lacan in La Chose. Fu per questo che, in età adulta il soggetto affidò al patrimonio la missione di ricompattare la propria identità smentita e mancante alle origini dal  non riconoscimento materno. I beni, la rendita divenne il suo nuovo appartenere ad un ruolo che incarnava l’ideale perduto  e mai raggiunto. Egli contrae i suoi desideri fino a non più ascoltarli, vive in un mondo deserto perché da lui non più investito, si vieta ogni accenno di legame ed ignora, per così dire, l’esistere del mondo, decreta la fine dei tempi della seduzione: il niente ad essere, che personifica, non è più in grado di commuovere alcuno, tantomeno se stesso. Il destino è il suo unico alter ego.

Egli non si sviluppò accanto ad un Altro, dunque il paesaggio lo ignorò. Egli si identifica con un “resto”, ciò che resta di un incontro che era sul punto di avvenire, ciò che resta di un’intenzione desiderante non compiuta, come qualcosa di estraneo, un peso di “troppo”. Il reale non ha per lui alcun rilievo, il reale è rappresentazione della perdita pura, perdita d’incanto, perdita d’emblée, tanto da non poter essere mai più investito. Un desiderio sospeso e mai più raggiunto abita la cornice del reale. Egli rifugge il reale come luogo della perdita e dell’inganno. Egli percepisce una caduta tale di livello da essere diventato “cosa” tra le cose del modo. E gli altri oggetti hanno anche loro valore di cosa. Il mondo ha un’esistenza senza rilievo, senza più sogni né giochi, un nulla rumoroso in cui l’unica relazione possibile è la distanza. Mai più appartenenza, ma inclusione non viva tra ciò che ha luogo ma non giunge ad essere soggetto in esistenza. Il mondo, in una parola, è transito di oggetti disaffettivizzati, scarti d’Altri, di ciò che sarebbe potuto accadere e semplicemente non avvenne. Identificato col niente di una relazione divenuta improvvisamente effimera, bianca, ovvero vuota di desiderio, il soggetto melanconico ha dovuto regredire all’ identificazione primaria, ma in cui egli non potrà identificarsi con l’Oggetto, poiché sparì. L’identificazione primaria, incorporante, essere l’Altro, avverrà dunque  con il processo stesso  di svanimento dell’Oggetto, processo che tratteneva qualcosa dell’Oggetto in fuga, la sua orma, il suo sfumarsi nel niente affettivo che ne nacque. Egli si identifica, dunque con ciò che resta dell’Oggetto, ciò che ne trattiene la fragranza, la sua fuga. Egli diviene un essere in fuga. Di qui il suo sentirsi simile al niente, esito del primo ed ultimo  incontro col primo oggetto d’amore raggiunto e perduto…

La regressione primaria, con l’assenza di soggettività che ne deriva, consiste in un rinunciare ad essere, di fronte al trionfo di un destino già dato: il soggetto da sempre si percepisce inconsciamente in un secondo piano, ora, con la perdita, ne ha la conferma che non teme smentite. Ciò porterà il soggetto perdant, schivo ad ogni scambio con l’altro, ad ogni invito che possa ricevere dal modo, egli, identificandosi con la diserzione dello sguardo, è divenuto una “diserzione” vivente, soggettività che si ritrae al tentativo di vivere ancora. Differentemente dal soggetto in lutto, che ha mantenuto nel cuore una fiducia nel tornare a credere, il soggetto melanconico, che non poté fidarsi del primo sguardo che fonda l’esistere, perché subito perduto, è un soggetto che sa fortemente di una prossima perdita, possiamo dire che l’anticipa e quindi disinveste ogni cenno di avvicinamento di nuovi possibili oggetti o progetti d’amore. Egli anticipa mentalmente la perdita e ne fa una certezza, perché fu ciò che gli apparve una prima, autentica volta a divenire un “per sempre”. Ogni relazione è, nella sua mente, un’attesa della fine, della sconfitta, ogni progetto di investimento è dalle origini tagliato via perché destinato a deludere, ogni nuova operazione non potrà sostenerlo… Noi sappiamo, inoltre, che l’esser stato fatto oggetto d’amore dallo sguardo materno, con continuità, permette, nella psiche, l’impasto pulsionale tra l’Istinto di vita e l’Istinto di Morte, cfr. Sigmund Freud Jenseits des Lustprinzips, tr. It..Al di là del principio di piacere (1920), (OSF) vol. 9. L’Io e l’Es e altri scritti 1917-1923, Torino, Bollati Boringhieri, 1986. Il senso più profondo del cedimento melanconico è, dunque, proprio nel profondo slegamento delle due pulsioni, nel momento in cui stava avvenendo la loro unione. L’unificazione psichica sul punto di formarsi, di saldarsi, fu bruscamente arrestata nel soggetto dallo svanire del desiderio dell’Altro, ed il piccolo Io non ebbe altro che reclinare ogni investimento, per rimanere saldo in ciò che ancora era suo, vivere un inizio di lutto che non può essere pronunciato da nessuno, nel timore di svanire assieme all’oggetto, l’unica possibilità è tenere a distanza se stesso da ogni progettualità o da ogni nuovo invito ad essere.

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  1. avatar Dott.ssa Maria Rita Ferrisays:

    Psicoterapeuta Psicoanalitico
    Formazione Psicoanalitica post Lauream
    “Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.”