Melanconia nell’indigenza e psicoanalisi II

Escluso dallo sguardo dell’Altro sociale, o meglio vittima di uno sguardo sociale che da quel momento lo esclude, l’Io vive o rivive per la prima volta un’invisibilità su cui non può nulla il suo sapere d’essere davanti all’insulto socialmente intrusivo e annichilente. Venendo meno lo sguardo sociale, viene meno, dunque, la visibilità, e l’Io torna, regredisce ai tempi in cui poteva venir meno lo sguardo della madre e con esso, il mondo.

Filosofia melanconica che non può prescindere dal pensiero di M.C. Lambotte, che a breve analizzeremo. Per comprendere il pensiero di M. C. Lambotte sul “Discorso Melanconico” è necessario partire da alcune premesse che riguardano la formazione dell’Io. Nel momento inaugurale di ogni biografia il desiderio del soggetto è quello di “essere fatto oggetto d’affetto da parte dell’Altro” (Lucio Russo, L’indifferenza dell’anima,1988, Borla). Questo concetto proviene da una profonda analisi nella “Fenomenologia dello Spirito” di Friedrich Hegel, (cfr Fenomenologia dello spirito, trad. di E. De Negri, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1960, Fenomenologia dello spirito, a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano 2000). Tale desiderio prende forma e si associa alla identificazione primaria, ovvero al desiderio primordiale di porre dentro di sé  in una introiezione assoluta, che non conosce confini,  l’oggetto amato e in cui l’Io, nell’indistinzione necessaria che ne deriva, perde se stesso, divenendo egli stesso l’oggetto. Egli sperimenta al contempo la presenza smisurata dell’oggetto e la propria irreversibile assenza. Il primo legame d’amore con l’oggetto, nell’infans, è incorporarlo del tutto, includendo tutto ciò che abita la psiche dell’oggetto: paure, fantasmi, desideri, lutti…, l’identificazione non è, dunque, alle origini, mai essere come l’oggetto, ma è essere l’oggetto. Assumendo in sé ciò che abita l’Oggetto, si può affermare, con J.Lacan, che l’inconscio sia il discorso dell’Altro, ovvero accolga in sé ciò che abita l’Altro.

Nel pensiero di M. Lambotte la psicologia dello sguardo è il luogo della psicologia della malinconia. Nella teoria dello specchio di J. Lacan, integrata  al pensiero di D.D. Winnicott in Gioco e realtà, si pone infatti l’asserzione del primo sguardo come archetipo o traccia del volto umano, nell’identificazione primigenia dell’Io. Esiste, infatti, alle origini, nell’incontro madre_bambino, un intreccio, uno scambio di sguardi, uno sporgersi l’uno nel mondo, negli occhi, dell’Altro, in un’intima attrazione. Ciò si lega alla poetica dell’autoritratto, in cui il pittore dipinge nei suoi occhi lo sguardo che incontrò e da cui fu accolto una prima volta. Si configura nell’immagine di sé che colse alle origini nello sguardo della madre, immagine divenuta icona del suo essere, la prima identificazione in cui l’Io si pro-gettò, magicamente catturato e impregnandosi così delle paure, desiderio, l’affetto dell’Altro. “Che cosa vede il lattante quando guarda il viso della madre?… ciò che il lattante vede è se stesso. In altre parole la madre guarda il bambino e ciò che essa appare è in rapporto con ciò che essa scorge” (D.D.Winnicott, Gioco e realtà, trad. Giorgio Adamo e Renata Gaddini, prefazione di Renata Gaddini, Roma: Armando, 1974 pag 189-191). Lo sguardo dell’Altro, dunque, rappresenta l’incipit di ogni formazione identitaria, offre le linee che definiscono i contorni dell’immagine in cui  l’Io possa riconoscersi.

E’ l’affetto contenuto nello sguardo dell’Altro (la madre) che rende possibile questo identificarsi con un’immagine intera di sé, laddove il soggetto, l’infans non giunge ancora a percepire l’interezza del suo corpo, essendo la fase dello specchio situata prima che si formi uno schema corporeo unitario, nella “discordanza primordiale”  (Jacques Lacan Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io Comunicazione al XVI Congresso internazionale di psicoanalisi Zurigo, 17 luglio 1949), tra ciò che sente e ciò che egli è, tenuto conto, appunto, che lo “stadio dello specchio” è da Jacques Lacan situato tra i sei e i diciotto mesi di vita. In tale fase della vita la psiche non ha ancora strutturato un elemento che organizzi, accordi e colleghi le emozioni-sensazioni, percependole, perciò irreali, distaccate o, appunto “discordanti”. La percezione principale del piccolo Io è di avere un corpo “morcelé” non ancora integrato al suo interno e fra sé e la mente. J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io (1949) in Scritti (1966), a cura di G.B.Contri, Einaudi, Torino 1974  p.88. E’ l’Affetto nello sguardo della madre che integra le parti ancora disgiunte della psiche e del soma dell’infans, che riunisce, nel riconoscimento affettivo l’Intero del soggetto e gli conferisce un’identità originaria attraverso il legame. Ed è l’ebrezza di essere guardato che riunisce come forza integrativa del desiderio dell’Altro, le parti fin lì disgiunte dell’essere.

Lambotte si sofferma ad analizzare cosa possa nascere da uno sguardo materno in cui il trauma abbia sottratto l’affetto e che si riduca, quindi, a mera percezione, avendo perduto l’affetto che permette di significare l’Altro e quindi riconoscerlo. Lambotte, infatti, riprendendo la fase dello specchio di Jacques Lacan, e unendola al pensiero di D. D. Winnicott, sottolinea come l’immagine che la superficie speculare rimandi è quella scorta nello sguardo materno, o per meglio dire il suo desiderio a lui rivolto. Ma se gli affetti, per una sorta di difesa precoce nella mente della madre, fossero disgiunti dallo sguardo per una non integrazione o una scissione sopraggiunta, fossero altro da esso, cosa vedrà il bambino nel volto della madre? Potremmo giungere a ipotizzare che vedrà la scissione stessa, ovvero l’impossibilità di un legame, tra sé e sé (ricordiamo il malinconico verso “…me di me privo…” di Giacomo Leopardi in Aspasia, canto XXIX; cfr. Leopardi, Giacomo, Canti: commentati da lui stesso, Palermo: R. Sandron, 1917 prima edizione, 1936 terza edizione notevolmente migliorata e accresciuta). Vedrà un “impossibile” a dirsi e, prima ancora, a configurarsi. Cioè un vuoto d’essere o meglio la siderazione che precede l’essere. Vedrà il volto della madre, ma mai se stesso nei suoi occhi, il volto non desiderante e quindi non vivo della madre. Davanti al suo sguardo si stenderà il vuoto d’essere di chi dovrebbe salvarlo dal non-sense del mondo.

Se, quindi, gli affetti non abitarono il primo sguardo, il soggetto non potrà mai  circoscrivere la sua sagoma ed investirla. Ciò fino a significare tale iniziale estraneità del suo essere da se stesso, non potrà mai abitare il suo corpo, perché alle origini non fu riconosciuto come vivo, come oggetto di desiderio, ovvero non fu riconosciuto un legame intrinseco con esso, perché, dunque, non fu davvero amato. Lo specchio delle origini, dunque, è lo sguardo della madre e l’infans è in esso che vede se stesso, come sua intima immagine, se la madre è capace di desiderio e quindi di investimento affettivo. Ogni problema di fragilità nel rapporto tra sé e sé, di natura identitaria o l’impossibilità per l’Io di costruire una salda autobiografia proviene da una fragilità o svuotamento primario di quel primo sguardo, che non potè offrire il riconoscimento inaugurale dovuto. “…la fase speculare indicherebbe le condizioni necessarie nell’insorgere della melanconia in un difetto dello sguardo materno che, anziché circoscrivere la figura del bambino in un piacere dello scambio, attraverserebbe il corpo del bambino come se si dirigesse verso un altrove o si perdesse in un lontano senza limite.”M.C. Lambotte, Il discorso melanconico, Borla, Roma,1999, pag.234.

Gli affetti disgiunti della madre, fondano una condizione, possiamo ipotizzare di un “lutto illuttuoso”, ovvero di un dolore così imponente da non poter essere pensato, né pronunciato e quindi non elaborabile che viva nella psiche della madre e ne freni la capacità di investimento libidico e ne oscuri lo sguardo. Oppure l’esistenza di una fragilità strutturale tale, in lei, da non poter contenere, e dunque elaborare, il dispiacere e la perdita. Gli occhi della madre, in tal caso, afferma M.C. Lambotte, inseguono, rapiti, un immaginario del passato senza fine e sconosciuto al bambino ed anche, a volte, a sé. Così le resta una “vista non guardante”, uno sguardo incapace di riconoscimento perché svuotato degli affetti necessari a tale operazione. Cosa accade dunque nella mente della madre strappata, a suo tempo, alla possibilità di accedere ad un lutto conseguente ad una perdita così profonda? Il pensiero di J.P. Racamier può fornire numerosi spunti di riflessione per trovare una esauriente risposta a tale fondamentale quesito. Egli sottolinea esista una perdita originaria d’oggetto e quindi una depressione denegata nella madre. E come  tale depressione sia essa stessa un fallimento del lutto, per una perdita ignorata e quindi non pensata. Un lutto che non evolve attraverso l’interiorizzazione del buon oggetto amato e perduto, permettendo all’Io così di ricostruire intimamente il legame con esso, riparandolo e quindi ritrovandolo simbolicamente nel mondo interno, come afferma M. Klein (Klein M, 1935, Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi, in Scritti 1921-1958, Bollati Boringhieri, Torino) è un lutto il luttuoso.

J.P. Racamier ci parla di incapacità dell’Io della madre, a volte, per fragilità, o per potenza del trauma, di entrare e formare il lavoro del lutto, egli parla di “lutto impossibile a farsi” e quindi l’Io implode in una depressione silente, che si basa sull’“esclusione” del lutto dalla coscienza, attraverso un meccanismo difensivo arcaico: il diniego: viene negata, nella psiche della madre la perdita stessa o meglio il dolore della perdita, escludendo alcun legame con l’oggetto, cfr. Racamier P.C. (1992). Le gèniedesorigins. Ed. Payot 2005. Il posto dell’oggetto perduto, nella psiche materna, il luogo della sua “ombra”(Freud S., Lutto e Melanconia, 1917, in Opere Vol. 8, Torino, Bollati Boringhieri, 2014), sotto l’effetto del diniego, è avvertita come assenza di vita e non più come mancanza dell’oggetto o luogo del desiderio ferito mortalmente ma pur vivo, che tornerà ad estendersi quando il processo di elaborazione del lutto sarà ultimato. Il diniego, dunque, preclude il lutto, per la madre, e apre il varco alla depressione, la rinuncia inconscia e necessaria agli affetti. Per non aver mai più contatto e forme di collegamento con il dolore, il suo Io rinuncia al pathos in un’estensione a-patica del vivere. Il suo sguardo non è più attraversato dal desiderio, ma da una sorta di nostalgia del vivere, un allontanarsi dal momento, cancellazione del presente, in favore del tempo di altre vite, un tempo perduto e rincorso. Non più “mancanza ad essere”, con J. Lacan, come origine dell’amore oggettuale, ovvero del desiderio d’oggetto ma mancanza d’essere, che rappresenta un vero incipit del bisogno dell’Altro I e non il suo desiderio. Il lutto per così dire bianco, cioè negato ad essere è l’ombra ritagliata dal cuore del soggetto che soffrirà così di un mal di vivere essenziale.

Un lutto impossibile a farsi, dunque, nella mente della madre, è un lutto che viene necessariamente denegato, dicevamo, con J.P. Racamier, e, scisso e sfigurato prima di essere espulso, e, con A. Green, posto nel cuore del proprio bambino come complesso della madre morta, (per approfondire il concetto di tale complesso, cfr. A. Green, Narcisismo di vita narcisismo di morte, Borla, Roma 1992). Con tale nome A. Green si riferisce ad un complesso psichico nella mente della madre, nucleo amalgamato e scisso, di natura luttuosa ma irraffigurabile, mero vuoto d’essere, nulla impensabile che nega il senso di tutto ciò che vive. Tale complesso, costituito dall’inelaborabilità di una perdita primaria, nella psiche materna, è assenza irreversibile d’oggetto, e al tempo stesso destino di irraggiungibilità di un’oggetto d’amore di cui lei non è che un resto, una traccia a cui l’Io della madre resta preso, inconfigurabile perché non ha raggiunto la sua pensabilità. Rende il vivere come caratterizzato da una perdita primigenia e assoluta, è certezza di morte in vita. Il complesso della madre morta è parte centrale del nucleo malinconico di cui tratteremo fra breve. Esso è il risultato di quel processo di cui abbiamo parlato in cui il lutto viene inzialmente denegato e successivamente viene scisso, ovvero allontanato da tutta la rete di possibili associazioni che possano produrre un contatto con esso o la sua ombra. “…Ho parlato allora dei depressi che non si deprimono, né delirano, ma che hanno stabilito, per salvaguardare la propria integrità narcisistica, insieme esigente e fragile, un sistema ‘paradepressivo’ potente, un sistema che, per vie oscure, trasmette intorno a sé “la pena nel cuore e la confusione nella testa”. pagg72-73).

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  1. avatar Dott.ssa Maria Rita Ferrisays:

    Psicoterapeuta Psicoanalitico
    Formazione Psicoanalitica post Lauream
    “Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.”