Melanconia nell’indigenza e psicoanalisi I

La caduta in indigenza produce nell’Io una caduta in un intimo vuoto. Un gettarsi nel vuoto di vita, vita fin lì colma di senso. E’ cancellazione di autobiografia e possiamo certamente affermare che non si tratti di una ferita narcisistica, ciò che può essere riassunta in un nuovo orientamento di vita o in un ritrovamento dell’oggetto, ma una morte del narcisismo stesso, un suo spossessamento.

L’insulto del destino attraverso l’indigenza ha la sua traumaticità per l’Io nella perdita della continuità dell’identità, o meglio ancora nella perdita dell’identità stessa, nella “cosificazione” dell’essere, (cfr J.P.Sartre La Nausée, 1938). Ogni lutto richiede un’identità che lo elabori, ma il lutto dell’indigenza mina alla radice tale possibilità, lacerando l’identità del soggetto, ovvero quel sentimento di continuità interna di cui parlò  Freud nel suo famoso discorso all’Associazione ebraica B’nai B’rith del 1926, si tratta di un sentimento percepito «…come chiara consapevolezza dell’interiore identità, la familiarità che nasce dalla medesima costruzione psichica». Un’ombra melanconica e non depressiva si stende sul vivere del soggetto indigente: la sua ”medesima costruzione psichica” è stata strappata, ciò che egli ha perduto non è nel mondo, non è l’oggetto, ma sé. Poiché, infatti, il denaro è potere, nell’inconscio esso è il poter essere, non appartiene quindi al registro dell’avere, ma è cifra dell’essere. Pertanto il cadere nel vuoto indigente ha come effetto nella psiche più certamente una caduta malinconica che depressiva.

Partiamo ad analizzare il pensiero di S. Freud, in alcuni cenni sul tema, per addentrarci sulle riflessioni successive, in ambito psicoanalitico. S. Freud parla per la prima volta del lutto nella Minuta G, del 7 gennaio 1895, in questi termini: “l’affetto corrispondente alla melanconia è quello del lutto, cioè il rimpianto di qualcosa di perduto. Così nella melanconia dovrebbe trattarsi di una perdita e precisamente di una perdita della vita pulsionale”. Quindi, possiamo affermare che la melanconia consista nel lutto per un’improvvisa assenza della vita libidica (cfr S. Freud, 1892-97, p. 29-30). Nel saggio “Lutto e melanconia” del 1917, S. Freud introdusse un concetto fondamentale che ci permette, oggi, di includere la perdita economica tra i fenomeni da cui il lutto ha origine. Estese, infatti il lutto, oltre alla perdita d’oggetto d’amore, anche alla perdita di oggetti di diversa natura, simbolicamente raffigurabili come uno “spostamento” dell’antico, primo oggetto, DasDing ma configurantesi ad esempio come perdita di un ideale o di un’immagine di sé, o anche, dunque, come una perdita sul piano sociale come un ruolo o una sicurezza economica. S. Freud, in tale scritto sottolineò, inoltre, con particolare evidenza le differenze metapsicologiche tra la reazione luttuosa alla perdita e la reazione melanconica, in particolare trattando l’aspetto cosciente della perdita nel lutto, laddove nel soggetto melanconico sembra esservi una perdita di un oggetto inconscio.

Nel primo caso la visione del mondo, da parte del soggetto, vive come un oscuramento, senza l’oggetto amato il mondo è divenuto vuoto e impoverito di senso, mentre nel secondo caso il soggetto non sa cosa abbia perduto e sente quindi la perdita totalmente come perdita del Sé: “nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato, mentre nella melanconia impoverito e svuotato è l’Io stesso” (Freud, 1917, p. 105). E’ l’Io, dunque, che diviene vuoto ed impoverito, ma anche responsabile di una perdita senza nome, la perdita  dunque corrisponde ad un abbassamento dell’autostima e alla realizzazione di un’immagine di sé difettuale e malvagia. Quindi possiamo affermare che il soggetto melanconico, che ha perduto se stesso, senza più volto perché, perdendo l’oggetto ha perduto il suo specchio narcisistico, senza conoscere “ciò che ha perduto” e quindi senza poter nominare il dolore né le cose del mondo cui d’improvviso divenne estraneo, icona di tristezza senza nome né confine, senza avvenire è, in realtà, un soggetto al lavoro.

E quale contenuto ha il lavoro melanconico? Freud afferma che esso consiste “nel preservare la pertinace adesione all’oggetto” (cfr. S.Freud, 1917, p. 105). La risposta melanconica alla perdita, è dunque, una risposta che aderisce, che tende a tenere a sé l’oggetto al punto che, “l’ombra dell’oggetto cade sull’Io” (ibidem) e perdersi. Anche nel lutto, poiché l’ombra dell’oggetto su di lui si poggiò, include una perdita dell’Io, una perdita delle parti narcisistiche depositate sull’oggetto. Nella perdita dell’oggetto esiste, dunque, sotterranea, una perdita di parti egoiche. Ciò che permette di superare la perdita, attraverso l’elaborazione del lutto è aver fatto l’esperienza di un legame affettivo neonatale tale da aver esitato nell’Io la rappresentazione interiorizzata di un buon oggetto materno, come base del Sé (cfr. M. Klein, La psicoanalisi dei bambini, a cura di Lyda Zaccaria Gairinger, Firenze, Martinelli 1969, 1988; M.Klein, Scritti 1921-1958, Torino Boringhieri 1978; Torino Bollati Boringhieri 1990).

Nel pensiero di Abraham si sottolinea come nel lutto  il soggetto riesca a riparare ed interiorizzare nuovamente l’oggetto amato e perduto nel proprio Io, mentre nel soggetto melanconico ciò non risulta possibile, (proprio perché la perdita è di natura inconscia, come ha aggiunto Freud nel suo manoscritto). Klein fa riferimento, nel superamento del sentimento luttuoso, al processo proprio della posizione depressiva (in alternativa a quanto non può accadere nella posizione schizo-paranoide, attraversata da meccanismi primitivi prevalenti di scissione e proiezione e in cui la integrazione è sconosciuta), consistente in una iniziale disintegrazione del mondo interno e in una sua successiva reintegrazione.

Se l’Io ha precocemente interiorizzato un buon oggetto interno, il senso di colpa per l’oggetto perduto sarà alla base di un processo di reintegrazione o, per meglio dire di riparazione dell’oggetto, riparazione del legame distrutto con l’accrescimento della fiducia nelle capacità riparative dell’Io, e quindi nella propria bontà e, per proiezione, nella bontà del mondo. Il soggetto, in questo caso, tornerà ad amare ancora, così come a progettare, a costruire e riparare simbolicamente nel lavoro, in età adulta, gli oggetti amati e perduti dell’infanzia. Questo spiega come un trauma di un segno tale come la perdita economica e quindi anche del proprio ruolo sociale non possa che produrre nella psiche del soggetto una regressione così massiccia da far tornare l’Io ai tempi dell’ Hilflosigkeit, in quel quid che precedette l’instaurarsi dell’Io prima degli affetti (Fraire M., La condizione femminile della melanconia, in Pensare l’inconscio, Manifesto.libri, Roma, 2000M.Fraire, Rossana Rossanda La perdita, Bollati Boringhieri editore, Torino 2008).

La malinconia, dunque, è tornare ad avere un Io prima dell’Io, tornare ad un mondo senza affetti, non perché perduti, ma perché non ancori raggiunti, e quindi privo di un senso soggettivo, ma per così dire, “cosificato”. L’Io ne può conoscere solo un suo senso “tecnico”, mondo senza affetti, che non conosce gli affetti, è mondo senza legami significanti, senza alcuna differenza tra ciò che sia soggettivo e ciò che appartenga alla realtà oggettiva. L’immagine dell’oggetto, non avendo affetti con cui amalgamarsi, si mantiene sempre in una sola dimensione e senza valore per il soggetto. Questi, inoltre, non disponendo di affetti, non può associarli alla percezione dell’oggetto, che rimane sempre “sospesa” in una scissione che attende senza speranza l’incontro con un affetto impossibile ad aversi ma pure necessario perchè l’Io sia in grado di costruire rappresentazioni, e giungere quindi ad una stabilità dell’oggetto interno, poterlo ricordare, riparare e porlo alla base della stabilità del Sé.

La percezione, infatti, appartiene alla fisiologia delle sensazioni visive, la rappresentazione, al contrario, è il risultato di un lavoro psichico inconscio in cui l’Io lega la percezione ad un affetto, di piacere o dispiacere. E’ la rappresentazione che parlerà dell’oggetto, rivelerà le qualità di esso, “buone” e quindi relative ad un oggetto da investire libidicamente, o “cattive”, proprie di un oggetto da disinvestire. (Per approfondire il concetto di “oggetto buono” e “oggetto cattivo” cfr. M. Klein, La psicoanalisi dei bambini, a cura di Lyda Zaccaria Gairinger, Firenze, Martinelli 1969, 1988; M.Klein, Scritti 1921-1958, Torino Boringhieri 1978; Torino Bollati Boringhieri 1990).

E’ la rappresentazione, dicevamo, che permette al soggetto di conoscere l’oggetto, è essa che ne farà un oggetto “buono” per l’Io, perché fondata sul piacere, da trattenere e desiderare introiettandolo, o cattivo, da temere, sfuggire e da cui difendersi espellendolo. La rappresentazione è anche alla base dell’instaurarsi del “Principio di realtà”: Il Principio di realtà ha una funzione di regolazione interna e adattamento esterno dell’Io. Il suo funzionamento si basa sul differimento della carica pulsionale, ovvero sul differimento della gratificazione della pulsione, in funzione delle condizioni presenti nel mondo esterno. Grazie a tale operazione esso è anche alla base del processo secondario di pensiero, che nel sistema topico presiede al funzionamento preconscio-cosciente, ha alla base la capacità simbolica raggiunta grazie al differimento delle pulsioni e alla loro energia divenuta, tramite il differimento, legata. (cfr. S. Freud, Tre Saggi sulla sessualità, 1905, in Opere, IV, Bollati Boringhieri1998)

La rappresentazione sottopone costantemente la percezione affettiva dell’oggetto all’esame di realtà, mantiene cioè tale percezione in relazione stretta col vero, ne favorisce il giudizio e la costanza di valutazione del reale, la possibilità di mutare il giudizio dell’oggetto in base al suo porsi nel mondo. Rende possibile, quindi, all’Io, di distinguere tra mondo esterno e mondo interno, creando l’interiorizzazione dell’oggetto, e rendendolo quindi pensabile, oltre che percepirlo nella sua oggettività reale, raccoglie le diverse percezioni dell’oggetto in un ventaglio coerente, ne rende chiara la maggiore o minore affidabilità o bontà, dona all’Io un orientamento nel mondo, tale da potersi pro-gettarsi in esso. Nella malinconia tutto ciò scompare, l’Io si trova collocato in un mondo senza oggetti, con un Sé senza volto, le percezioni degli oggetti si susseguono senza mai potersi unire, mancando gli affetti, senza trovare un senso alle cose del mondo e mai poter forgiare l’oggetto né interiorizzarlo, strappandolo alla scissione. Il pensiero secondario perde la sua capacità simbolica, o la comprime, si impoverisce di senso, divenendo più “tecnico” o operatorio, perde la flessibilità che il differimento pulsionale ed il legame dell’energia di base rende possibile e la sua capacità di significazione del reale si impoverisce. Potremmo dire che l’Io avrà così un pensiero che comprende  i bisogni ma non conosce il desiderio, un pensiero perduto. Nulla gli appartiene perché nulla lo commuove, l’indifferenza del mondo è la sua stessa “indifferenza dell’anima”(cfr. L. Russo, L’indifferenza dell’anima,1988, Borla).

Nella malinconia nessuno iato tra mondo interno ed esterno, mondo folle dove sogno e realtà hanno la stessa valenza, dove vivere è disperante, perché l’Io è in un mondo deserto di vita. Non avendo affetti da vivere, non potrà dunque mai investire e, dunque, non percepirà mai un investimento su di sé come possibile, definendo tale posizione “bianca” come destino ad-essere. E rifiuterà ogni investimento a lui rivolto come ingannevole richiamo. D’altronde è anche vero che, non potendo investire il mondo, esso gli sarà indifferente. Il suo gesto di rifiuto o allontanamento è in realtà un’estrema difesa dall’incandescenza del desiderio dell’Altro, attraverso un’apparente negazione di valore della richiesta, e ponendo tra sé e il mondo un indescrivibile vuoto. Il soggetto caduto in indigenza ha perduto la sua visibilità e quindi l’identità, diviene “silhouette dell’assenza” (cfr.S.VegettiFinzi, Il Bambino della notte. Divenire donna, divenire madre, Collana Saggi, Milano, Mondadori, 1992.

Infatti lo stato dell’Hilfloigkeit, cioè dell’impotenza originaria dell’Io, in cui cade il soggetto melanconico, diviene impotenza-a-vivere. Va tenuto conto, inoltre, che nell’indigenza è la stessa capacità a riparare, aver cura, tutelare e proteggere gli oggetti amati che viene meno, su cui l’Io poggiava la propria identità come buona. Tali attitudini sono l’espressione della pulsione libidica, l’Istinto di Vita che protegge l’esser-ci. La capacità riparatrice dell’Io è alimentata, inoltre, dall’Istinto di Vita e dalla libido ed è dimostrazione di esistenza della presenza di Eros nella psiche che fronteggia l’Istinto di Morte. Resta un’immagine malvagia di sé, distruttiva, che chiede conto del fallimento giunto, e l’Io stesso sarà individuato dalla Todestrieb come oggetto da aggredire. (Per approfondire il concetto di Isinto di Morte , o Todestriebcfr.S. Freud, Al di là del principio di piacere (1920), in Opere di Sigmund Freud (OSF) vol. 9.

 

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  1. avatar Dott.ssa Maria Rita Ferrisays:

    Psicoterapeuta Psicoanalitico
    Formazione Psicoanalitica post Lauream
    “Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.”