La prima cosa bella: psicoanalisi II

Il sogno di bellezza, infatti, riunisce e ripara le fessure dell’Io, offre continuità e compattezza ad esso, è certezza di essere fatto oggetto d’amore: “…Amore per sua natura non può amare altro che il bello…” afferma infatti Diotima nel Simposio di Platone. Poiché nasce come risposta alla prima ombra o distanza che separò il soggetto dalla madre, l’immagine ideale di Sé e quindi l’ideale di bellezza nasce contro il dolore psichico, è il primo medicamento per la perdita. Ciò che è bello, infatti, non muore, ma vive eternamente. E’ in questo senso che l’immagine ideale di sé lotta con il nonessere, con la morte. Esso, dunque, è profondamente un desir vivant, trattiene il tempo e quindi la vita, è oscuramento della mancanza, trionfo sul lutto. Fare di sé un oggetto estetico, è per l’Io divenire sensibile (estetico proviene etimologicamente dal gr. aisthêtikòs, sensibile) e quindi tornare in vita. La bellezza immaginale con cui il Sé si riveste per rivolgersi al mondo, infatti, ha essa stessa funzione di un ponte ideale, che permette l’attraversamento del reale e quindi l’esperienza, dal gr. Empeiria, attraversare, come ci ricorda A. Correale, e anche, vorrei aggiungere, dalla radice indoeuropea PAR, muoversi attraverso, e dal sanscrito PI-PAR-TI, tragittare. L’Ideale di bellezza è dunque un ponte, in illusione, che permette l’attraversamento della morte. E’ anche vero che tale sogno, se amplificato, si pone al posto di sé e dell’oggetto, e giunge ad esigere un suo culto. L’ideale di bellezza, nella sua sacralità, dunque è affermazione di un passato che non diviene mai tale, mantiene intatta la domanda d’oggetto, e quindi la vita psichica. Il ritorno narcisistico degli investimenti d’amore, che creano il Sé Ideale, quando l’Io, cioè fa di Sé l’oggetto d’amore, rappresentano, infatti, una risposta dell’Io alla morte di sé e dell’oggetto, quando si separarono, il suo modo prematuro di tenerlo e tenersi in vita e donargli il respiro. Ma è in tale culto che l’immagine può sommergere l’Io da cui nacque, e vivere in sua vece. Voglio dire che l’immagine può assumere il posto del vero Sé. Quando è in assenza di un pensiero affettivo che desideri conoscere ed elaborare il dolore, per l’Io l’unica forma di vita è scomparire in un’immagine bella di sé, che lui stesso creò.

“…vi è cioè un” regressivo “ inchiodamento all’Altro materno che non gli permette di trovare il suo posto…” (M. Recalcati, L’ultima cena, anoressia e bulimia). E’ restituirsi alla Cosa (l’oggetto mitico delle origini, la madre arcaica delle origini di J. Lacan) e perdersi in essa. L’immagine idealizzata di sé unisce la bellezza dell’oggetto all’Io ed è, dunque, la Madre Arcaica. Ma l’Io, precipitando in esso, così si scioglie nell’oggetto, come Narciso nelle acque. E’ il trionfo della Todestrieb, con Freud, ovvero dell’Istinto di Morte. C’è sempre, all’interno di ogni illusione fusionale, un lago fermo della psiche, lo attraversa l’istinto del ritorno alle origini, che conduce sempre alla morte della soggettività nascente. Anna ne emerge attraverso un gioco continuo della mente, ovvero un’illusione ( dal lat. Il-ludo, gioco). Canta, all’inizio e al termine del film, quel piccolo brano come un mantra leggero, una fiaba, un pensiero che semplifichi il mondo donandogli una buona forma. Il personaggio di Anna vive ai bordi della vita, senza potersene nutrire né appartenervi, e poiché, dunque, la vita non l’accolse, il suo Io può negare anche la morte ( lei ride morendo). L’identità di Anna è sottile come una silhouette malinconica che non giunge ad essere, cioè a consistere, perché non può fare esperienza di ciò che vive o significare gli eventi, e ciò perché non fu a lungo lei stessa pensata e compresa da un primo Altro che, dunque, non si soffermò. Le sue azioni sono, così, cenni di azioni, perché non esitano da una pausa riflessiva in cui il pensiero che si sofferma può cogliere il significato delle cose e quindi scegliere direzioni e percorsi, ma da un cenno di pensiero. Un pensiero, il suo, che, certo, non fu amato e ascoltato, alle origini, e che rimane per questo per lo più primario, nel senso che trattiene e segue ciò che è gradito all’Io e respinge o allontana dalla pensabilità il dispiacere. Cenno di pensiero e quindi cenno di azione. E’ lei stessa che vive, dunque, in un cenno di esistenza. L’Io di Anna, nelle storie d’amore, aderisce allo specchio(gli occhi dell’Altro) come la falena alla luce, fino a morire. Lei, non trovandosi, “cerca sé nell’Altro” potremmo dire con Jean Hyppolite nei suoi studi sulla Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Scorre nella realtà, ne scivola attraverso, senza bagnarsi in essa e assumerla, in una leggerezza che mantiene acerba Canta la realtà, ovvero la riconduce ad un racconto breve e cantabile.

La vita stessa diviene quindi ricordo, narrazione senza storia, con Racabulto, ovvero senza trama, frange di immagini irrelate, nella ricerca di una buona forma, di sé e delle cose. E’ la sua, un’identità che rifugge la dialettica, come il dolore, non dialoga, perché non ama il conflitto, né può sostenerlo e, così, sfuggendolo, non incontra mai davvero l’Altro, né il suo desiderio e, dunque, il sentirsi davvero in vita. Per un Io così fragile, l’unica meta è il non morire, e quindi non poter evolvere. Il prezzo è quello di perdersi nel fascino di un’immagine bella di sé, che colmi i vuoti e compatti un Io lacunare, che ha delle discontinuità da nutrire. Noi sappiamo, infatti, con M. Recalcati, che “… lo splendore risolve ogni discontinuità dell’Io.” In assenza di un vero Sé e dell’oggetto, Anna può solo ricondurre il vivere ad un brano cantabile, ad essere lei stessa un’intera cosa bella, senza pause, cesure, perdite. Fino a ridere anche nella morte. Poiché non può conoscere il suo vero Sé, non conosce davvero i suoi figli, li ama appassionatamente come ama la vita, ma come un significato senza il Significante. E’ per loro un’immagine fragile e bella, da rincorrere senza mai averla per sé. Di qui il sentimento depressivo dei figli. Anna è anche per loro, a volte, un’immagine, non muore: “…forse è immortale…” sussurra il figlio nelle scene finali. Trasmissione nella psiche dei due di un culto della buona forma e del vuoto di esistenza in esso compreso. La figlia, infatti, sembra raccogliere la ricerca di una buona forma e lui fa suo il vuoto esistenziale della madre, che nulla può riempire (pensiamo alla disperata ricerca di sostanze), perché in lui nulla si configura come nutrimento psichico. Ma l’ideale di sé, in noi tutti, può seguire un altro destino, diverso da quello dipinto nel film. Poiché, infatti, ogni idealizzazione inconscia di sé, in un’eclissi di soggettività, è il trionfo della Madre arcaica, del Materno sul soggetto, l’Io che non cede ad essa, regredendo, ma la trattiene come proprio sogno, intrattiene con l’Ideale di Sé un intimo colloquio senza svanire in esso, e ne fa, anzi, un suggerimento ad essere, un primo significante. Nel senso che ne fa una meta, un modo per dare forma e nome ai propri desideri. E’ certo che l’idealizzazione del bello, che sempre partecipa dell’illusione inconscia, ovvero un modo di illudersi inconsciamente, proviene da una rinuncia non del tutto avvenuta del soggetto alla propria onnipotenza, al ritorno al tempo in cui, possiamo dire, i primi dei pronunciarono il suo nome. L’idealizzazione del bello è, dunque, per l’Io, un primo modo di pensare sé e il mondo, nasce dal ritrovamento, nella terra, di un dono. E’ inoltre, per l’Io, un antico modo di conoscere il mondo, unendo ad esso i propri sogni. Possiamo dire che L’Io ideale è sempre il volto del primo amore. La prima e più grande forma di amore è, infatti, unire i due universi, il pensiero e l’essere. Quando l’Io può comprendere questo, scopre che la ricerca della madre è sempre un inganno, poiché la madre è già nell’ Io, che per sua natura nasce, esso stesso, da un atto d’amore per sé.

 

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  1. avatar Dott.ssa Maria Rita Ferrisays:

    Psicoterapeuta Psicoanalitico
    Formazione Psicoanalitica post Lauream
    “Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.”