Il film ci permette di approfondire una riflessione sui significati inconsci del sintomo della balbuzie e offrire alcune linee guida per conoscere il disegno di cura psicoanalitico, considerando ciò che scorre tra la psiche di Bertie e quella di Lionel. “Tra i due nasce un discorso emotivo profondo che va oltre le tecniche poco convenzionali adottate dal logoterapista Lionel Logue (Geoffey Rush). In tal senso il racconto del film diventa psicoanalitico in quanto rappresenta, con sensibilità e accuratezza, la complessità dei movimenti profondi e degli scambi emotivi messi in gioco nelle relazioni umane”.( La Repubblica). Per quanto riguarda il primo punto, il mondo inconscio della balbuzie, occorre partire dal considerare la trama, la tessitura psichica della parola: nella parola pronunciata si cela sempre un’invocazione inconscia all’Altro, l’Io ad esso si dona, ed è sempre suggerimento di legame. La parola, dunque, come atto comunicativo, è espressione del desiderio. Quale l’origine del desiderio? Farò un piccolo accenno, come premessa, per comprendere meglio quanto dirò intorno al tema della balbuzie e i suoi significati inconsci. Il desiderio appare in un momento evolutivo della psiche, dopo la nascita dell’Io, successivo a quello della pulsione, nasce da essa attraverso il suo essere trattenuta e contenuta dalla legge di castrazione, che include la rinuncia ad essere immediatamente appagata. Tale legge è una legge dell’Io, che sospende temporaneamente la pulsione, stende su essa l’oblio e, intimamente la rende fertile perché la apre all’Altro, come in dono. Tale sospensione, inoltre, permette all’Io di conoscere la sua terra, il reale, stabilire un accordo tra il suo mondo pulsionale e le leggi del mondo. Alle origini era dunque la “pulsione e i suoi destini” (S.Freud), attraverso la castrazione successiva, operata dall’Io, nacque, per il soggetto, l’essere-nel-mondo. Tra le spinte pulsionali maggiori era quella di ricongiungersi a ciò che J. Lacan chiama la Cosa, ovvero la Madre delle origini. Stiamo parlando della pulsione verso l’essere indistinto dalla Madre, (o pulsione di morte, Todestrieb, in S.Freud), il negare la separazione e quindi la nascita. Se tale spinta prevale, il mondo delle relazioni oggettuali, ovvero con l’Altro, sarà connotato da una volontà ad appetere l’Altro, ovvero sfamarsi dell’Altro, incorporandolo e fondendosi ad esso, come oggetto del bisogno e non del desiderio. Il mondo pulsionale, dunque, è il luogo del bisogno percepito e lo regge la legge della necessità, non conosce l’attesa. E’ alle origini della vita. Da esso una parte si disgiunge per formare l’Io ( con S. Freud), per realizzare nel mondo ciò che la pulsione più amava. Per far ciò, ricordiamo ancora, fu necessaria un’operazione chiamata castrazione, con cui l’Io frena la pulsione, conosce il mondo e traccia un ponte tra la pulsione differita e la realtà. Nasce così la parola, il comunicare con il mondo esterno e, nel mondo interno, la pensabilità e quindi la trasformazione della pulsione, del bisogno in desiderio: sarà così possibile rivolgersi all’Altro non per sfamarsi o incorporarlo (secondo un primo significato di appetere, da cui appetito), ma per porgere un appello, una domanda (ap-petere dapeto, domanda e desiderio, come ci ricorda B. Marte). Così il soggetto, con la parola, rinuncia alla Cosa perduta di J. Lacan, per cercare nel mondo non più la jouissance, ovvero il godimento antico, senza differenziazione con l’oggetto, ma la ricerca ed il piacere di cingere tra le braccia il luogo dell’Altro. La parola, inoltre, contiene la sostanza del Sé, e pertanto è preziosa ed intima. Essa si inscrive in un “tra-noi”che, come ci suggerisce E. Lévinas, indica sia la familiarità dello spazio soggetto-oggetto, sia l’incolmabile separatezza tra essi. Ponte che riunisce soggettività separate, include l’accettazione della separazione dall’Altro e introduce anche una seconda separazione: separazione dell’Io dal proprio pensiero fatto parola. La parola è, dunque, un pensiero che viaggia, in cerca di un ascolto desiderante dell’Altro, che la renda viva nel mondo e quindi reale. E’ dal desiderio dell’Altro, inoltre, di cui l’ascolto è una forma, che nasce il riconoscimento dell’identità, come ci ricorda F. Hegel in Fenomenologia dello Spirito. E’ possibile,ora, passare ad analizzare i significati inconsci del sintomo della balbuzie.
La parola interrotta, come nella balbuzie, è rivelazione di un desiderio che rinuncia ad esser-ci, a vivere nel mondo, tende a ritrarsi verso un prima interiore, il bisogno che pure lo ha originato. L’Io interrompe i desideri non del tutto formati come tali(e quindi le parole) e le spinte pulsionali per non interrompere sé. Siamo di fronte ad una continuità dell’Io che non si esprime, dunque, se non in una chiusura, una parete, dove la parola cerca un varco (che subito nega) per essere nel mondo. Un Io che può formarsi per sé ma che esclude l’oggetto (l’Altro) e il suo fascino, per non cadere in esso. La balbuzie indica che qualche elemento psichico non ha trovato rappresentabilità e quindi contenimento e senso, tale elemento mantiene dunque la sua natura pulsionale, quale “resto” (J. Lacan) che non è stato reso pensabile, non elaborabile e quindi rimane, in qualche modo, estraneo al Sé: il sintomo della balbuzie si configura, così, come eclissi del simbolo. La pausa nella parola o tra le parole, svela la presenza di qualcosa che non può essere pronunciato, ciò che resta di una rappresentazione mancata o incompleta. Una pausa all’interno della parola può configurarsi, dunque, come una pausa dell’essere, dovuta alla presenza di rimozioni o, in casi più gravi, di scissioni interne che, come pareti, infrangono nel soggetto la pensabilità dell’esperienza. L’interruzione rende la parola un frammento di sé, o meglio frammenti ricongiunti ma mai riuniti, appoggiati l’uno all’altro dal volere dell’Io, testimoniano la presenza di una disgiunzione nel mondo interno. Per essere pronunciata, la parola, infatti, deve essere assunta dall’Io come propria, richiede un atto di adesione al sentire. La balbuzie, dunque è passione interna per la discontinuità, ma anche, al contempo, invocazione di ricongiunzione. Nella dinamica del sintomo di cui parliamo, è l’oblio che si interpone nel verbo a coprire la ferita che lo spezza. La pausa, infatti, parla di una perdita dell’Io. Figlia di un lutto, essa è, dunque, “l’ombra dell’oggetto” che cade nella parola, e la sospende. Chiede silenziosamente che un Altro la raccolga nella mente e la ami, perché diventi, per il soggetto, pensabile. Nella pausa è dunque raccolto e celato un oggetto perduto, avvolto di oblio. Perdita innominabile e invisibile, curata da un piccolo silenzio che l’Io pone tra le sillabe. Essa diviene esitazione dell’Io, che si offre al mondo ritraendosi e parlando del suo, muto, dolore. Infine va ricordato che le parole spezzate, discorsi interrotti, risalgono indubbiamente ad un fallimento dell’impasto pulsionale nella psiche: l’odio e l’amore interni non si amalgamarono del tutto e la Pulsione di Morte, sotto forma di odio, non lenita da Eros, tende a rompere il muro di silenzio che protettivamente l’Io ha costruito per contenerla. La balbuzie, dunque, si offre come tentativo dell’Io di comporre l’odio e l’amore che non raggiunsero integrazione e quindi il blocco psichico nel pronunciare parole può essere visto come il tentativo dell’Io di non distruggere il mondo con il proprio odio parola mai elaborato, né accolto, ma contenerlo all’interno di frasi interrotte, come gesto o grido di dolore trattenuto. Il sintomo della balbuzie, dunque è, esso stesso, un atto d’amore. Va dunque, in questo senso, tenuto conto che l’interruzione sintomatica della parola o del discorso simboleggia un divieto posto dall’Io per lo sconfinamento rabbiosamente ricercato; potremmo anzi parlare di passione per lo sconfinamento, (trattenuta a stento dall’Io), per varcare il limite, colpire Zeus. Il non-detto, il celato-tra-le-sillabe è senz’altro l’indicibile, come più sopra dicevamo, ma non solo, aggiungerei, per una difficoltà interna a rappresentarsi, a divenire pensabile, ma anche per la presenza nel soggetto di tale passione per lo sconfinamento, per il bisogno del Sé di mantenersi entro una realtà tutta pulsionale e quindi, per sua natura, sconfinata. La volontà di sconfinare nasce come modo inconscio di uccidere la morte, identificata con il limite, e, quindi, con la castrazione. Ma vivere senza limiti è vivere nella pulsione, e quindi nel qui-edora, poiché essa è percepita dall’Io come necessità da esaudire con urgenza, e ciò determina l’impossibilità, per l’Io, di sviluppare progetti. Così, infatti, come non può lanciarsi nella parola, lasciare andare in essa il Sé che la contiene, nell’impossibilità di rivolgersi all’Altro, così il futuro è un abisso. Vita imprigionata, alla ricerca di chi lo colpì. Di qui la rabbia così incontenibile, sempre, nel vivere del soggetto che soffre del non poter pronunciare interamente la sua parola o discorso. Poiché, dunque, egli non vive nel mondo, se non in parte, ma nella pulsione, è in essa prigioniero.
Vive la pressione interna, pulsionale, proiettata all’esterno, come se da lì provenisse. Nel suo mondo conscio, avendo proiettato fuori di sé la spinta pulsionale, sperimenta il mondo come un insieme di domande incessantemente a lui rivolte, che non danno pausa, un eccesso di complessità e un’ingiusta richiesta. Il soggetto, così, sperimenta un’ostilità del reale, come se il mondo intero si stringesse intorno a lui, lo sguardo dell’Altro lo esclude e, al tempo stesso lo insegue, e restringe il suo spazio. La cesura, la sosta nel discorso, rimandano certamente alla castrazione, al governo delle pulsioni, ma ad una castrazione non del tutto avvenuta, in quanto è posta non nella psiche, ma all’interno del discorso o della parola e non modificandoli semanticamente, ma solo formalmente. E’ dunque una volontà di castrazione trasportata dallo psichico (in cui sarebbe stata creativa) ad un agito linguistico, una sorta di lapsus bianco, che, nel costituirsi come sintomo, denuncia la sua inefficacia. Essa infatti non uccide la pulsione, non la limita e quindi non la rende fertile, non la scolpisce per donarla al reale come modo, per il soggetto, di donare sé. In tal modo l’Io, poiché ha castrato non la pulsione, ma la sola parola, senza modificarla né pronunciarla, vive nell’allarme continuo di essere assalito dall’ondata pulsionale che non è stata realmente trattenuta né contenuta, dalla pulsione di odio rappresentata nella coscienza dal sintomo che può avere il sopravvento sull’Io o dal giudizio dell’Altro-Altri. Nella balbuzie, non portando a termine il processo di castrazione, l’Io, in realtà, legittima il Sé a negare il Nome del Padre (J. Lacan), vivere nel mondo pulsionale, a rincorrere la Cosa, ovvero la Madre arcaica, la perfezione perduta. La cesura, nella balbuzie, è dunque negazione del Nome del Padre, poiché rompe la sacralità della parola, il suo legame con il divino, il suo essere segno. La parola, infatti, per sua natura, è sempre rinuncia dell’Io alla Cosa, per aprirsi all’Altro, richiede una scelta, un ergersi dell’Io, è un rinunciare alla Madre. Scegliere è sciogliere il legame primario con lei, che nasceva nel corpo, senza parole. . Alla luce di tali considerazioni la parola interrotta non è nella sua sostanza una parola trattenuta o non detta, ma il suono arcaico, la voce di antiche pulsioni che precedono il verbo, voce di roccia, senza fantasma, della Madre Terra, di qualcosa di un antico inconscio trattenuto nel soggetto, ma da esso pure slegato. Ma tale magma pulsionale, dunque, non può differirsi, perché manca il Nome del Padre (J. Lacan), che riconosce e legittima la vita, crea ponti, permette l’ingresso nel mondo. (Nel film è del tutto evidente il problema di assenza affettiva della figura del padre del protagonista). Il mondo intero è un padre che non giunge. La presenza di un problema nell’articolare la parola o il discorso rivela sempre, nella psiche, un eccesso del materno ed un’ assenza del padre interno: l’Io non può ergersi nel mondo e parlare, perché non lo sostiene la verticalità maschile, che ha basi e rami, ma l’urgenza di emergere, ovvero di nascere una prima volta. Ed è così che la rabbia si pone al posto della castrazione non avvenuta se non parzialmente, ovvero è un’invocazione del Nome del Padre, perché non sia più così distante e giunga a ricomporre le sillabe, a porre, con il gesto di Ettore, che solo a lui appartiene, un piccolo ponte tra sé ed il figlio e, dunque, tra la parola ed il suo senso. Possiamo così dire che, nella balbuzie, l’universo cerca una sintesi.
Psicoterapeuta Psicoanalitico
Formazione Psicoanalitica post Lauream
“Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.”