Come in uno specchio: psicoanalisi I

L’assenza di una vera trama dinamica e la costruzione sintattica del film che segue un concatenarsi e giustapporsi di frange di tessuto narrativo a frammenti di un discorso sospeso in ognuno dei personaggi sta ad indicare, metaforicamente, la perdita di un pensiero strutturante nell’esperienza psicotica. In questo senso, dunque, i personaggi possono essere da noi immaginati come parti irrelate di un unico Sé psichico, in cui l’Io caduto in pezzi dall’urto con il reale non può più dialogare con sé, e non riesce più a mantenere un ac-cordo (da cor-cordis, il vissuto psicotico è, di fatto, una caduta nel cuore) tra le parti psichiche che così si rincorrono e si sfuggono senza fine (come avviene tra i personaggi) in una ricerca di un possibile incontro e del rinvenimento di un centro psichico che dia senso all’esistere. Ciò che avviene, dunque, nella mente di Karin si riflette, replicandosi, come in uno specchio, nella dinamica interrotta degli scambi. L’assenza, inoltre, di un vero snodarsi evolutivo del percorso tematico rimanda alla temporalità circolare nel mondo psicotico, che sfuggendo la sofferenza del vivere congela il tempo al momento che precede il separarsi inaugurale. L’Io che non é sorretto da braccia psichiche materne che contengano il dolore e dalla verticalità paterna, che dona struttura all’esperienza, teme, nel separarsi dal suo oggetto primario, di cadere nell’abisso e andare in pezzi. Rinuncerà così ad ogni evoluzione pur di trovare riparo dalle discontinuità che l’essere nel tempo conduce. Nel mondo psicotico, dunque, il solo tempo possibile è il tempo di un passato immaginale che eternamente genera se stesso, il tempo mitico, immobile e circolare dove nasce e si dispiega la leggenda familiare. In essa, come sogno amoroso, il familiare tesse di nuovo l’unicum che unisce in fantasia ogni soggetto al seno ideale condiviso, allontanando e negando gli annunci separativi che ogni evoluzione ha in sé. Quando la psiche familiare non può elaborare i passaggi dolenti del tempo, il suo lutto non incontra la parola delle generazioni, sarà un lutto bianco, consegnato all’oblio. In questo caso essa rinuncerà ad un divenire, sostituirà la storia con la leggenda. Il mito si situerà dove era il reale. E’ ciò che vediamo accadere nel film: Bergman ci rivela le due realtà scisse del vivere del gruppo.: i paesaggi dolenti nel mondo interiore di ognuno che mai riesce a raggiungere il cuore dell’altro e dell’altro- in-sé e quindi mai nasce, in una psiche familiare che non contiene il dolore e non sostiene l’individuarsi, e la gioia ritualizzata, di superficie in cui ognuno dà forma alla leggenda della famiglia felice, che ritrova illusoriamente, in tale sogno diurno, il suo cuore psichico che unisce e dà vita: “Una cenetta in famiglia sotto un lampione e la luna nascente” dice David in una incongruente ilarità al ritorno dei figli subito dopo aver saputo della gravità del male di Karin e negando il dramma che si svolge solitario in ognuno. Il mito familiare vive, dunque, nel film, di un tempo senza tempo, tempo circolare tutto racchiuso dal rincorrersi del giorno e della notte. Tempo che non evolve, in uno spazio non vissuto perchè manca l’incontro, ma solo attraversato dai personaggi che sembrano immagini senza volume. In assenza dell’ascolto del mondo interno ogni cosa perde spessore. Il film si apre, infatti, con una scena in cui la mitologia familiare si offre come gioco sul mare: i personaggi ridendo si rincorrono nelle acque al tramonto. Le loro figure in controluce si disegnano come ombre sul mare. Tali ombre simbolicamente rappresentano la loro vita-ombra. Vivendo, infatti, in due mondi spezzati e inintegrati, avendo scisso l’inquieto essere per sé e il ridente essere per l’Altro l’Io di ognuno ha smarrito l’unità psichica che fa esistere. In ognuno l’essere diviene ombra che, legata a una non-vita si delinea come silhouette dell’assenza. Mancando un fondamento ontologico, dove l’essere trova radici nel mondo, la vita si assottiglia, diviene immagine senza profondità, come ombre sul mare. Il film è ricco di simboli, in cui sono raccolti e trovano riparo i significati del vivere in mondi scissi, come nella psiche di Karin, significati che, nella simultaneità del co-esistere, chiedono di essere connessi. Essi parlano degli enigmi della mente, di ciò che è maggiormente vicino al vivere e al morire e delle possibili nascite. Ascoltando il loro discorso sommerso ci guideranno alla comprensione del dolore e degli slanci nella psiche spezzata di Karin, che è anche specchio degli altri mondi. In diverse parti del film è presente il rito della raccolta e dispiegamento delle reti da pesca. La rete è simbolo della parte psichica che contiene, che unisce e tiene insieme, e impedisce che la buona sostanza psichica possa cadere o disperdersi, trattiene sostenendo ciò che è più fragile e può sperdersi o frantumarsi. E’ anche corda, ovvero legame del cuore (per assonanza con cor-cordis) che accoglie e unisce. Il richiamo al raccogliere le reti (Martin e David all’inizio e Karin e Minus in finale) indica, quindi, la ricerca del legame del cuore che fa appartenere e non disperde. Karin ed il fratello si allontanano per prendere il latte e, nel loro passeggiare, lei a un tratto si ferma ed esclama: “Senti il cuculo!” “Tu senti sempre troppe cose” risponde Minus. Il cuculo rappresenta il divino (ricordiamo che Zeus si tramutò in cuculo per conquistare Era) e l’annuncio della primavera. Nell’immaginario giapponese poichè compare all’alba è percepito come messaggero della notte: i suoi voli nel mattino seguono la fuga delle ombre. Egli quindi unisce nel volo i volti notturni della psiche e la luce diurna della coscienza, rende possibile l’integrazione di parti dolorosamente scisse. Rappresenta dunque il desiderio inconscio di unità psichica. Messaggero del mattino dell’anima e della rigenerazione psichica, Karin è sola a udirlo, potremmo dire che lo ascolta per tutti. Proviene, certo dal suo mondo inconscio, immagine di un desiderio di luce e rinascita che in lei prende forma, come vedremo, come di un mondo-altro che assume la consistenza di un vero mondo, in cui la sua psiche esce dal cerchio della solitudine, ricongiungendosi al luminoso cosmo materno. Ma il cuculo è anche lei stessa che annuncia, non udita, dal suo mondo-altro, la possibilità di rigenerazione psichica. Minus e Karin rappresentano due volti di una stessa psiche. Lui offre parole al suo sentire inconscio, lei gli rivela la follia luminosa che è ad un passo da lui. “Se solo una volta potessi parlare a papà, ma lui è così chiuso nel suo mondo…anche lui…” afferma Minus: Egli porta così a coscienza l’enigma del gruppo e la realtà sommersa di ognuno. Parla di soggettività catturate nella dinamica della chiusura, suggerita dal timore inconscio di aprirsi all’altro e così sperdersi o svuotarsi. I soggetti vivono, quindi, in lontananze psichiche generate dall’impossibilità di esser-ci. Per essere-nel-mondo, infatti, l’Io deve poter sostenere il lutto che lo separa dal cosmo materno e lo rende individuo. Nell’evoluzione psichica il soggetto può tollerare le continue separazioni dall’oggetto, cui il reale sospinge, perchè ha interiorizzato il legame: le cure materne, alle origini, come braccia hanno sostenuto l’Io nel mondo. Vivere nel pensiero materno fa sentire di avere un posto nel mondo. Lo sguardo della madre è il primo specchio che accoglie nei colori dell’affettività ed offre fondamento ontologico: riconosce e fa esistere. Madre e bambino vivono in un sogno odoroso, che culla il divenire psichico, primo cerchio affettivo che può aprirsi verso le nascite psicologiche in cui il separarsi e non gli abbandoni preparano al ritorno, sono voli biografici senza perdita dell’oggetto, che dimora nel cuore. Ma in assenza del materno (nel film sottolineato da una madre assente e mai ricordata, che indica un vuoto materno arcaico, non dicibile, che non incontra la parola di alcuno) l’Io non può tollerare le rotture che il reale impone. La discontinuità diviene così apertura di abissi in cui l’Io può precipitare e frantumarsi. Il materno è anche simbolizzato nel latte che Minus e Karin andranno a cercare nelle prime scene del film, ma che non riusciranno a portare al gruppo perchè si verserà a terra, dalle mani di Minus. Il latte è simbolo universale del nutrimento spirituale, simbolo di conoscenza e di iniziazione, è luogo di immortalità e rinascita. Nell’antico Egitto il latte veniva versato sulle 365 “tavole delle offerte” intorno alla tomba di Osiride, tante quante sono i giorni dell’anno e queste aspersioni aiutavano il dio a resuscitare ogni mattina. Nel mondo dei simboli il latte è inoltre messo in relazione con la luna (dal colore latteo). La luna, astro del rinnovamento periodico, rappresenta il materno notturno che culla i sogni e sospinge al rinnovamento psichico. Il latte versato, quindi, rappresenta per il gruppo l’impossibile nutrimento psichico che rigenera, desiderato e non raggiunto. Manca infatti il materno che accoglie e culla l’essere che sogna, culla le nascite psicologiche. E’ in questo senso che l’insostenibilità della sofferenza, laddove il nascere diviene, quindi, lacerazione psichica, porta l’Io a negare in ogni incontro la consistenza dell’alterità, negando lo sguardo. Negli scambi è infatti taciuta la dinamica degli sguardi: nessuno tra i personaggi incontra lo sguardo dell’altro, non può rispecchiarsi nell’altro per riconoscersi, può solo fuggirlo come la propria ombra, o vedere lì replicato il proprio dramma, come in uno specchio. Ciò rimanda all’assenza di uno sguardo fondatore, specchio della conoscenza che dà forma alle immagini del reale, luogo del senso del vivere. In questo senso i dialoghi sono dialoghi senza l’Altro, si sciolgono in monologhi privi di ac-cordo, di cuore, l’Altro è superficie su cui il soggetto si sporge e non vede che la sua mancanza di essere. Ciò è particolarmente evidente negli incontri tra Martin e David; l’uno rappresenta il doppio dell’altro, immagini del maschile allo specchio, di un maschile svuotato, sfinito, che non giunge a nascere, non assume su di sé il proprio mondo. Vive in loro un maschile pallido, che cerca riparo dal vivere, immagine della rinuncia allo slancio, che non genera radici per ergersi e dirigere lo sguardo. E’ un maschile non nutrito, che non giunge a significare il reale, quello che porta David ad infrangere un sogno di paternità nei figli e in sé e Martin a trovare rifugio in un amore per Karin, che non sorregge. Lo sguardo non abitato dal desiderio dell’incontro con una soggettività-altra diviene sguardo bianco, pura azione percettiva, in David diviene un osservare la figlia, sguardo che reifica, che fa divenire cosa il dolore, da studiare: distanzia fino a far tacere il sentire. Karin, abbandonata da ogni sguardo, precipita come cosa tra le cose del mondo: non incontra che specchi che replicano la sua solitudine. Vedremo più avanti come l’assenza dello sguardo dell’Altro, che vivifica e pone al riparo, diviene nel suo delirio immagine degli occhi dei lupi, presenza di sguardi che divorano l’essere.

 

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  1. avatar Dott.ssa Maria Rita Ferrisays:

    Psicoterapeuta Psicoanalitico
    Formazione Psicoanalitica post Lauream
    “Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.”