Melanconia nell’indigenza e psicoanalisi III

Un lutto denegato cioè non riconosciuto come lutto è, dunque, soggetto ad un’operazione psichica di tagli tali da sfigurarlo; la scissione, in seguito, farà percepire all’Io un elemento  così sfigurato come estraneo a Sé. Ne resta l’impronta, impossibile ad essere riconosciuta, perché priva di forma, ad opera del diniego, e perché priva di legami e connessioni possibili, ad opera della scissione. Un lutto, dunque defantasmato, inconfigurabile e quindi impensabile, può intraprendere o la via somatica (espulsione nel corpo) attraverso malattie e dolori fisici, o la via della trasmissione tra le generazioni FAIMBERG H., (1985), Eltelescopaje de generaciones: la genealogia de ciertasidentificaciones, Revista de Psicoanalisis, 42, 5, pp.1043-1056 (trad. fr.: Le téléscopagedesgénérations, à propos de la génélogie de certainesidentifications, Psychanalyse à l’université, XII, 46, 1987, pp.181-200). FAIMBERG H., (1993), A l’écoutedutelescopagedesgenerations: pertinencepsychanalyqueduconcept. In: Kaes R. et al. (a cura di), Transmission de la viepsychiqueentregenerations. Paris: Dunod. In questo secondo caso l’esito sarà di costituire il nucleo malinconico nella psiche  dell’infans, processo di cui ci occuperemo a breve. Analizzeremo, quindi, la trasposizione del nucleo oscuro del complesso della madre morta nel cuore dell’infans, vedremo, nel pensiero di M. C. Lambotte, il processo di proiezione inconscia nella sua psiche, che lo accoglierà come un nero dono del destino. Il lutto  impossibile a farsi nella madre va ad abitare la psiche del bambino e diviene malinconia. La teoria dello stadio dello specchio (J. Lacan) sottolinea ampiamente come il processo di formazione e di riconoscimento come propria dell’immagine di sé sia il processo di identificazione primordiale, in cui gli occhi della madre, il suo sguardo, siano la matrice identitaria primaria. In tal senso il primo sguardo ha la consistenza dell’archetipo du visage de l’être. Lo sguardo della madre rappresenta il primo specchio vivente e amoroso dell’infans, egli sa di essere ciò che gli appare negli occhi di lei. Tale immagine speculare è alla base della formazione identitaria che nel tempo si formerà nel piccolo Io e sarà al tempo stesso una forma umana e un sentimento.

Negli studi e nella letteratura psicoanalitica la fragilità primaria della formazione autobiografica risale ad una difettualità nella psiche materna. Infatti,  gli studi e le riflessioni rivolte alla fase dello specchio di J. Lacan sottolineano una correlazione tra il generarsi della malinconia e una défaillance dello sguardo materno, che non poté desiderare il bambino, per una propria madre morta interiorizzata, accogliendone la figura in un piacere sensoriale ed emotivo, ma che, attratta da un’antica perdita inconscia a cui non poté mai rinunciare, né nominare, attraversa con lo sguardo il corpo del bambino perdendosi in un orizzonte senza volto in cui è però inciso il suo destino e, di conseguenza, quello del piccolo Io. Lo sguardo è come catturato da un tempo prima del tempo, un tempo mai vissuto, ma inconsciamente conosciuto. Il primo specchio, nell’infans, in questo caso, avrà i lineamenti sconosciuti dell’oggetto perduto della madre. E l’essere dell’infans consisterà nel tentativo senza fine di raggiungere l’orizzonte senza limiti dove è stato catturato lo sguardo materno, dove da sempre dimora. Non si è mai soffermato su di lui, lo rese trasparente, dunque fragile. Far soffermare su di sé, incontrare uno sguardo per cui ebbe la stessa consistenza del nulla, fino a divenire come attraversato da esso: in ciò consiste la possibilità per il soggetto malinconico di essere. Ed ora che lo sguardo sociale lo esclude, torna ad essere trasparente per il mondo, nulla per se stesso. Alle origini della malinconia per indigenza, dunque c’è la fine identitaria, un autobiografia lacerata “una frattura troppo precoce, strettamente in rapporto con l’essere e l’esistenza; vista non guardante a cui la madre dà corpo silenziosamente…” (M. C. Lambotte, Il Discorso Melanconico, Roma, Borla 1999,pag 236).

Vivere il proprio corpo, dunque, per il soggetto indigente e melanconico risentirà di questo disconoscimento sociale, eco archetipico di un disconoscimento materno, corrisponderà ad un essere un niente, ciò che può essere attraversato dallo sguardo e quindi inconsistente, forse non-vivo, ma di certo di alcuna importanza: il soggetto melanconico non abita il suo corpo, lo abbandonò anche lui, alla ricerca dello sguardo materno che abitava in un altrove. Poichè non appartenne alla madre, cioè non fu da lei riconosciuto come oggetto d’amore, non può appartenere a sé, al soggetto, egli è un resto, ciò che resta di un desiderio, di un incontro mancato. Un riflesso che mai appartenne ad alcuno, perché egli fu visto, ma non guardato. Prima ancora che il piccolo Io possa distinguere tra mondo esterno ed interno, all’alba dell’identità, egli trova il desiderio dell’Altro come spinta ed oggetto di identificazione. Le cure materne, così come lo sguardo, fanno sì che l’infans senta di esistere attraverso il contatto con il desiderio dell’Altro. Ma l’oggetto materno è percepito vivo solo se in lei vive uno slancio desiderante, in tal caso diviene per il piccolo Io l’Oggetto per i processi di internalizzazione e di investimento libidico, fondamentali per la formazione del Sé. La madre diviene per l’infans un oggetto psichico e quindi strutturante, solo se desiderante, un oggetto vivo nel mondo interno del bambino e nella realtà. L’infans, percependo il desiderio della madre, infatti, la sente viva, accanto a sé, l’assenza del desiderio in lei lo fa sentire in presenza di un Oggetto morto. Inoltre il desiderio materno accende quello del piccolo Io, che sperimenta, così, per la prima volta, l’essere-in-vita, nella mise en forme di un rivolgersi, di una richiesta di legame. La scomparsa del desiderio nel contatto con la madre lascia il bambino solo al mondo, al centro di un lutto senza oggetto, perdita originaria e lutto archetipico: perdendo lo sguardo desiderante di lei perde il suo proprio fondamento ed ogni possibilità di essere.

Cosa è uno sguardo che non sia abitato dal desiderio? Agli occhi del piccolo si delinea il lungo sguardo materno che non ha topos dove sostare, perduto in un antico e non raggiungibile orizzonte, dove un immaginario sconosciuto nella psiche della madre prende forma. Antiche illusioni abbracciate in un ramage di memorie troppo dolorose per avere un nome hanno catturato lo sguardo della madre ed il suo desiderio, esse vivono al-di-là del bambino e di un legame possibile con lui. Per il piccolo, che ha conosciuto forse un attimo il desiderio e lo ha subito perduto, raggiungere questo orizzonte, impossibile ad aversi, ove abita la delusione materna, dove erra il suo sentire, prendere il posto dell’immagine d’altri tempi che ha catturato il suo Oggetto d’amore diviene il suo unico destino. E’ l’enigma nello sguardo materno che affascina e conduce il bambino a rincorrere un impossibile sogno di congiunzione. Perdersi in orizzonti d’altri tempi, in cui lutti inconsci continuano ad abitare senza giungere alla coscienza è un perdersi evanescente, per la madre, è essere forma assoluta, abdicando ad ogni consistenza. Tale è un lutto mancato, ciò di cui parlavamo precedentemente con J.P. Racamier. E tale lutto mancato, il lutto impossibile a farsi nell’incorporazione originaria del bambino, va a poggiarsi nel suo intimo e fragile Io: l’infans, così interiorizzerà il lutto di un Altro. Si può dunque parlare, con M.C. Lambotte, di genealogia del lutto. Egli conosce l’assenza della madre, il suo nucleo assente, il vuoto luttuoso, ma non può incontrarla, la cerca trattenendo il lutto di lei come suo unico dono selvaggio. Il soggetto melanconico percepisce l’onnipotenza dell’Ideale dell’Io (formazione psichica la cui ipertrofia proviene dalla “lacuna dell’Altro” scivolata in lui), la sua inarrivabilità come un destino di esclusione e come istanza internamente persecutoria e il proprio sé come del tutto effimero, senza consistenza alcuna: un nulla nel vuoto d’essere: come avrebbe potuto, altrimenti, la madre attraversarlo con lo sguardo? La sua trasparenza agli occhi di lei, dunque non è mai segnale di fragilità per il piccolo Io, ma di una  propria inconsistenza d’essere, la sua propria colpa quindi si inscrive nell’essere, la prova è l’assenza di desiderio nella madre, che egli non può che amare e rincorrere senza fine, se non può accenderlo. Egli sente di essere un rien: ciò che resta di un dono non voluto e lasciato cadere. “…niente delinea lo spazio del soggetto malinconico, niente tinge il riflesso speculare dei colori dell’affettività; e questo niente a cui il soggetto dice di assomigliare è simile al niente del nulla” M.C. Lambotte, op.cit. pag 237.

Il disconoscimento della sua immagine è il dono che ha ricevuto dall’Oggetto materno, la sua traccia, un ricordo di ciò che somigliava ad un incontro, che lo lasciò tra le cose del mondo, senza un nome a cui rispondere. “Essere un nulla” diventa per lui una realtà che ha il sapore del vero, nulla, nessuno riuscirà a strapparlo da questa sua verità, costruita su uno sguardo mai raggiunto. La sua colpa è nel non aver saputo trattenere lo sguardo, così come, nell’indigenza, non aver saputo trattenere il denaro o la fortuna, egli attribuisce alla sua lacuna d’essere la causa del perdere. Tautologicamente egli perde poiché è un perdant. Tutto dunque ebbe inizio da un incontro con lo sguardo materno che era quasi sul punto di compiersi e che fu bruscamente interrotto infrangendo ogni promessa di investimento. Egli era sul punto di giungere al riconoscimento d’amore che lo avrebbe fondato ad essere, quando, acceso dal desiderio dell’Altro, ed in seguito alla sua brusca scomparsa provò la caduta libera in volo, sorretto dal suo solo desiderio che non ha più nessuno a cui rivolgere. Da un punto di vista delle dinamiche fra conscio-inconscio possiamo affermare che l’infrangersi improvviso della relazione desiderante con la madre abbia impedito l’instaurarsi della specularizzazione. Tale relazione poteva fondare l’essere del piccolo sul terreno stabile dell’identità ma, dal punto di vista del bambino, l’improvvisa scomparsa ha significato la morte della madre, e lo ha legato eternamente a quell’unico momento che la precedeva, promettendo, la vita. L’improvvisa morte dell’Oggetto ha interrotto un processo di investimento libidico e, ancor prima, del nascere di un desiderio fondante il sentimento di essere in vita e la struttura dell’Io. Il piccolo soggetto investirà tutto se stesso, dunque, nel tentativo infinito di  tutelarsi dal ripetersi di nuove scomparse dell’oggetto. Sarà per questo che denegherà ogni successivo investimento , proprio e altrui, congelerà le emozioni fino a non percepirne alcuna, sarà l’indifferenza  e il dirsi fuori dai legami il suo rifugio. Non è possibile chiamare la scomparsa dell’Oggetto materno un vero trauma, per la precocità in cui accadde, quando l’Io era così in fieri da non poterlo riconoscere, pensarlo, poté solo disconoscerlo come improvvisa caduta degli affetti del mondo, di cui è stato il destinatario e la vittima. Inoltre la perdita non è strettamente di un oggetto, ma di un incontro raggiunto ma non avvenuto. Perdita di un incipit, di un legame promesso, pronunciato e svanito. In tal senso si può parlare di un trauma blanc, cioè del fatto “che nulla accadde di ciò che sarebbe dovuto accadere”(cfr. D.D.Winnicott” Paura del crollo” in Esplorazioni psicoanalitiche, a cura di Clare Winnicott, Ray Shepherd e Madeleine Davis, ed. it. a cura di Carla Maria Xella, Milano: Cortina, 1995).

Il soggetto non sa cosa sia accaduto, ma la memoria del non-incontro, della relazione bruscamente perduta e del suo disconoscimento è ontologicamente impressa nel suo stesso essere e lo dirige verso chiusure successive al mondo e ad attribuire a sé la causa di ciò che non avvenne ed era presque sul punto di avvenire, dell’incontro che non si costituì. Il complesso della “madre morta” era dunque già nella psiche della madre, che non poté sostenere alcun desiderio verso il piccolo e si gettò in un vuoto malinconico in cui accorse anche la psiche del bambino, nel tentativo disperante di far tornare in vita nuovamente l’oggetto amato e perduto. Tale catastrofe che non poté essere disconosciuta totalmente, “conosciuta ma non pensata”, con C. Bollas, (alludendo l’autore all’esperienza che, nel bambino, prima di essere elaborata o pensata, si presenta come “esperienza dell’essere”, esperienza puramente sensoriale ed ontologica, che precede la parola, cfr Bollas C., 1987, L’ombra dell’oggetto. Psicoanalisi del conosciuto non pensato. tr. it. Borla, Roma, 2007.) produce quindi una difesa profonda e radicale: l’Io rifiuterà di tornare a desiderare, e quindi, ad investire nuovamente, rinuncerà all’oggetto. Il piccolo avrà fatto, dunque, esperienza di essere visto, ma non guardato, sarà stato davanti ad un sguardo abitato da un’assenza di desiderio e che pertanto si offre come mera funzione percettiva, glaciale e non viva, che non giunge a significare ciò che vede perché ha perduto la genesi del simbolo, la carnalità dell’abbraccio. “…Occhi senza sguardo, occhi disabitati, brutale scomparsa dell’oggetto che introduce al desiderio”. Egli, comunque ignora ciò che accadde, perché non poté pensarlo e perché fu un nulla-d’essere che l’attraversò e lo fece creatura sua. Se il primo sguardo l’attraversò, invece di avvolgerlo e salvarlo dalla caducità del mondo, lo toccò in punto che ne trattenne la traccia come un foro, buio psichico, centro di un pensiero melanconico che ruota su se stesso. Se lo sguardo della madre fu disabitato, il suo volto si dissolse in una cornice senza tela, divenne esso stesso la cornice. In aggiunta al pensiero di M.C. Lambotte, a cui torneremo tra brave, va analizzata la dinamica inconscia del pensiero melanconico nel caso specifico dell’indigenza. Figlio del nulla egli sa di essere nulla, e il nulla economico, ai suoi occhi, non è che una sua declinazione. Egli, così come ha la certezza di aver in sé la causa della perdita dello sguardo e del desiderio materno, sa di essere le seulcoupable de sa ruine. Il trauma, è possibile affermarlo, è nel suo improvviso essere uscito di scena, ora come allora.

L’assenza di sguardo materno allora, sociale oggi, diviene dunque il punto di intersezione di un non essere, di un’ideale inaccessibile ed ipnotico. Il sociale oggi, come la madre allora, esprimono nell’indifferenza la misura dell’indegnità ad essere del soggetto, quando ogni suo gesto, nella glaciazione sociale, viene percepito come insufficiente ad esistere, melanconicamente avvolto nell’indigenza, ad avere una seconda chance. I lati, i bordi del sociale e quindi, inconsciamente della cornice materna rappresentarono l’unica salvezza per il soggetto. Aderire ai bordi della cornice significa poter essere riconosciuti in un’identità  sfumata, di periferia, accettare di essere una comparsa nel mondo, organizzare il progetto identitario attorno a dei bordi, alla superficie dell’essere, facendo del ruolo sociale il centro esistenziale, la sua cornice. Il crollo del piano sociale, la défaillance su questo livello colpirà mortalmente quelle parti di narcisismo che il soggetto aveva pur messo ensemble. Va tenuto conto che la possibilità economica inserisce, in età adulta, il soggetto nel gruppo sociale, nella collettività che nell’inconscio del soggetto stesso rappresenta la continuità, l’estensione del Sé familiare, in cui essere nuovamente accolto come in una seconda nascita in età adulta, il ben essere è la benedizione del padre che protegge da ogni cattivo vento e dalla sventura nel mondo.

Nome spettacolo
  1. avatar Dott.ssa Maria Rita Ferrisays:

    Psicoterapeuta Psicoanalitico
    Formazione Psicoanalitica post Lauream
    “Ciò di cui vi parlerò segue le linee guida di una narrazione inconscia. Vi invito, quindi, ad ascoltare con quella parte della vostra mente che accoglie i sogni.”